Alessandro Manzoni – I promessi sposi (Parte 11/16)

CAPITOLO XXIII

Il cardinal Federigo, intanto che aspettava l’ora d’andar in chiesa a celebrar gli ufizi divini, stava studiando, com’era solito di fare in tutti i ritagli di tempo; quando entrò il cappellano crocifero, con un viso alterato.

– Una strana visita, strana davvero, monsignore illustrissimo!

– Chi è? – domandò il cardinale.

– Niente meno che il signor… – riprese il cappellano– e spiccando le sillabe con una gran significazione, proferì quel nome che noi non possiamo scrivere ai nostri lettori. Poi soggiunse: – è qui fuori in persona; e chiede nient’altro che d’esser introdotto da vossignoria illustrissima.

– Lui! – disse il cardinale, con un viso animato, chiudendo il libro, e alzandosi da sedere: – venga! venga subito!

– Ma… – replicò il cappellano, senza moversi: – vossignoria illustrissima deve sapere chi è costui: quel bandito, quel famoso…

– E non è una fortuna per un vescovo, che a un tal uomo sia nata la volontà di venirlo a trovare?

– Ma… – insistette il cappellano: – noi non possiamo mai parlare di certe cose, perché monsignore dice che le son ciance: però quando viene il caso, mi pare che sia un dovere… Lo zelo fa de’ nemici, monsignore; e noi sappiamo positivamente che più d’un ribaldo ha osato vantarsi che, un giorno o l’altro…

– E che hanno fatto? – interruppe il cardinale.

– Dico che costui è un appaltatore di delitti, un disperato, che tiene corrispondenza co’ disperati più furiosi, e che può esser mandato…

– Oh, che disciplina è codesta, – interruppe ancora sorridendo Federigo, – che i soldati esortino il generale ad aver paura? – Poi, divenuto serio e pensieroso, riprese: – san Carlo non si sarebbe trovato nel caso di dibattere se dovesse ricevere un tal uomo: sarebbe andato a cercarlo. Fatelo entrar subito: ha già aspettato troppo.

Il cappellano si mosse, dicendo tra sé: “non c’è rimedio: tutti questi santi sono ostinati”.

Aperto l’uscio, e affacciatosi alla stanza dov’era il signore e la brigata, vide questa ristretta in una parte, a bisbigliare e a guardar di sott’occhio quello, lasciato solo in un canto. S’avviò verso di lui; e intanto squadrandolo, come poteva, con la coda dell’occhio, andava pensando che diavolo d’armeria poteva esser nascosta sotto quella casacca; e che, veramente, prima d’introdurlo, avrebbe dovuto proporgli almeno… ma non si seppe risolvere. Gli s’accostò, e disse: – monsignore aspetta vossignoria. Si contenti di venir con me –. E precedendolo in quella piccola folla, che subito fece ala, dava a destra e a sinistra occhiate, le quali significavano: cosa volete? non lo sapete anche voi altri, che fa sempre a modo suo?

Appena introdotto l’innominato, Federigo gli andò incontro, con un volto premuroso e sereno, e con le braccia aperte, come a una persona desiderata, e fece subito cenno al cappellano che uscisse: il quale ubbidì.

I due rimasti stettero alquanto senza parlare, e diversamente sospesi. L’innominato, ch’era stato come portato lì per forza da una smania inesplicabile, piuttosto che condotto da un determinato disegno, ci stava anche come per forza, straziato da due passioni opposte, quel desiderio e quella speranza confusa di trovare un refrigerio al tormento interno, e dall’altra parte una stizza, una vergogna di venir lì come un pentito, come un sottomesso, come un miserabile, a confessarsi in colpa, a implorare un uomo: e non trovava parole, né quasi ne cercava. Però, alzando gli occhi in viso a quell’uomo, si sentiva sempre più penetrare da un sentimento di venerazione imperioso insieme e soave, che, aumentando la fiducia, mitigava il dispetto, e senza prender l’orgoglio di fronte, l’abbatteva, e, dirò così, gl’imponeva silenzio.

La presenza di Federigo era infatti di quelle che annunziano una superiorità, e la fanno amare. Il portamento era naturalmente composto, e quasi involontariamente maestoso, non incurvato né impigrito punto dagli anni; l’occhio grave e vivace, la fronte serena e pensierosa; con la canizie, nel pallore, tra i segni dell’astinenza, della meditazione, della fatica, una specie di floridezza verginale: tutte le forme del volto indicavano che, in altre età, c’era stata quella che più propriamente si chiama bellezza; l’abitudine de’ pensieri solenni e benevoli, la pace interna d’una lunga vita, l’amore degli uomini, la gioia continua d’una speranza ineffabile, vi avevano sostituita una, direi quasi, bellezza senile, che spiccava ancor più in quella magnifica semplicità della porpora.

Tenne anche lui, qualche momento, fisso nell’aspetto dell’innominato il suo sguardo penetrante, ed esercitato da lungo tempo a ritrarre dai sembianti i pensieri; e, sotto a quel fosco e a quel turbato, parendogli di scoprire sempre più qualcosa di conforme alla speranza da lui concepita al primo annunzio d’una tal visita, tutt’animato, – oh! – disse: – che preziosa visita è questa! e quanto vi devo esser grato d’una sì buona risoluzione; quantunque per me abbia un po’ del rimprovero!

– Rimprovero! – esclamò il signore maravigliato, ma raddolcito da quelle parole e da quel fare, e contento che il cardinale avesse rotto il ghiaccio, e avviato un discorso qualunque.

– Certo, m’è un rimprovero, – riprese questo, – ch’io mi sia lasciato prevenir da voi; quando, da tanto tempo, tante volte, avrei dovuto venir da voi io.

– Da me, voi! Sapete chi sono? V’hanno detto bene il mio nome?

– E questa consolazione ch’io sento, e che, certo, vi si manifesta nel mio aspetto, vi par egli ch’io dovessi provarla all’annunzio, alla vista d’uno sconosciuto? Siete voi che me la fate provare; voi, dico, che avrei dovuto cercare; voi che almeno ho tanto amato e pianto, per cui ho tanto pregato; voi, de’ miei figli, che pure amo tutti e di cuore, quello che avrei più desiderato d’accogliere e d’abbracciare, se avessi creduto di poterlo sperare. Ma Dio sa fare Egli solo le maraviglie, e supplisce alla debolezza, alla lentezza de’ suoi poveri servi.

L’innominato stava attonito a quel dire così infiammato, a quelle parole, che rispondevano tanto risolutamente a ciò che non aveva ancor detto, né era ben determinato di dire; e commosso ma sbalordito, stava in silenzio. – E che? – riprese, ancor più affettuosamente, Federigo: – voi avete una buona nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare?

– Una buona nuova, io? Ho l’inferno nel cuore; e vi darò una buona nuova? Ditemi voi, se lo sapete, qual è questa buona nuova che aspettate da un par mio.

– Che Dio v’ha toccato il cuore, e vuol farvi suo, – rispose pacatamente il cardinale.

– Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?

– Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi l’ha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v’attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, l’imploriate?

– Oh, certo! ho qui qualche cosa che m’opprime, che mi rode! Ma Dio! Se c’è questo Dio, se è quello che dicono, cosa volete che faccia di me?

Queste parole furon dette con un accento disperato; ma Federigo, con un tono solenne, come di placida ispirazione, rispose: – cosa può far Dio di voi? cosa vuol farne? Un segno della sua potenza e della sua bontà: vuol cavar da voi una gloria che nessun altro gli potrebbe dare. Che il mondo gridi da tanto tempo contro di voi, che mille e mille voci detestino le vostre opere… – (l’innominato si scosse, e rimase stupefatto un momento nel sentir quel linguaggio così insolito, più stupefatto ancora di non provarne sdegno, anzi quasi un sollievo); – che gloria, – proseguiva Federigo, – ne viene a Dio? Son voci di terrore, son voci d’interesse; voci forse anche di giustizia, ma d’una giustizia così facile, così naturale! alcune forse, pur troppo, d’invidia di codesta vostra sciagurata potenza, di codesta, fino ad oggi, deplorabile sicurezza d’animo. Ma quando voi stesso sorgerete a condannare la vostra vita, ad accusar voi stesso, allora! allora Dio sarà glorificato! E voi domandate cosa Dio possa far di voi? Chi son io pover’uomo, che sappia dirvi fin d’ora che profitto possa ricavar da voi un tal Signore? cosa possa fare di codesta volontà impetuosa, di codesta imperturbata costanza, quando l’abbia animata, infiammata d’amore, di speranza, di pentimento? Chi siete voi, pover’uomo, che vi pensiate d’aver saputo da voi immaginare e fare cose più grandi nel male, che Dio non possa farvene volere e operare nel bene? Cosa può Dio far di voi? E perdonarvi? e farvi salvo? e compire in voi l’opera della redenzione? Non son cose magnifiche e degne di Lui? Oh pensate! se io omiciattolo, io miserabile, e pur così pieno di me stesso, io qual mi sono, mi struggo ora tanto della vostra salute, che per essa darei con gaudio (Egli m’è testimonio) questi pochi giorni che mi rimangono; oh pensate! quanta, quale debba essere la carità di Colui che m’infonde questa così imperfetta, ma così viva; come vi ami, come vi voglia Quello che mi comanda e m’ispira un amore per voi che mi divora!

A misura che queste parole uscivan dal suo labbro, il volto, lo sguardo, ogni moto ne spirava il senso. La faccia del suo ascoltatore, di stravolta e convulsa, si fece da principio attonita e intenta; poi si compose a una commozione più profonda e meno angosciosa; i suoi occhi, che dall’infanzia più non conoscevan le lacrime, si gonfiarono; quando le parole furon cessate, si coprì il viso con le mani, e diede in un dirotto pianto, che fu come l’ultima e più chiara risposta.

– Dio grande e buono! – esclamò Federigo, alzando gli occhi e le mani al cielo: – che ho mai fatto io, servo inutile, pastore sonnolento, perche Voi mi chiamaste a questo convito di grazia, perche mi faceste degno d’assistere a un sì giocondo prodigio! – Così dicendo, stese la mano a prender quella dell’innominato.

– No! – gridò questo, – no! lontano, lontano da me voi: non lordate quella mano innocente e benefica. Non sapete tutto ciò che ha fatto questa che volete stringere.

– Lasciate, – disse Federigo, prendendola con amorevole violenza, – lasciate ch’io stringa codesta mano che riparerà tanti torti, che spargerà tante beneficenze, che solleverà tanti afflitti, che si stenderà disarmata, pacifica, umile a tanti nemici.

– È troppo! – disse, singhiozzando, l’innominato. – Lasciatemi, monsignore; buon Federigo, lasciatemi. Un popolo affollato v’aspetta; tant’anime buone, tant’innocenti, tanti venuti da lontano, per vedervi una volta, per sentirvi: e voi vi trattenete… con chi!

– Lasciamo le novantanove pecorelle, – rispose il cardinale: – sono in sicuro sul monte: io voglio ora stare con quella ch’era smarrita. Quell’anime son forse ora ben più contente, che di vedere questo povero vescovo. Forse Dio, che ha operato in voi il prodigio della misericordia, diffonde in esse una gioia di cui non sentono ancora la cagione. Quel popolo è forse unito a noi senza saperlo: forse lo Spirito mette ne’ loro cuori un ardore indistinto di carità, una preghiera ch’esaudisce per voi, un rendimento di grazie di cui voi siete l’oggetto non ancor conosciuto –. Così dicendo, stese le braccia al collo dell’innominato; il quale, dopo aver tentato di sottrarsi, e resistito un momento, cedette, come vinto da quell’impeto di carità, abbracciò anche lui il cardinale, e abbandonò sull’omero di lui il suo volto tremante e mutato. Le sue lacrime ardenti cadevano sulla porpora incontaminata di Federigo; e le mani incolpevoli di questo stringevano affettuosamente quelle membra, premevano quella casacca, avvezza a portar l’armi della violenza e del tradimento.

L’innominato, sciogliendosi da quell’abbraccio, si coprì di nuovo gli occhi con una mano, e, alzando insieme la faccia, esclamò: – Dio veramente grande! Dio veramente buono! io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso; eppure…! eppure provo un refrigerio, una gioia, sì una gioia, quale non ho provata mai in tutta questa mia orribile vita!

– È un saggio, – disse Federigo, – che Dio vi dà per cattivarvi al suo servizio, per animarvi ad entrar risolutamente nella nuova vita in cui avrete tanto da disfare, tanto da riparare, tanto da piangere!

– Me sventurato! – esclamò il signore, – quante, quante… cose, le quali non potrò se non piangere! Ma almeno ne ho d’intraprese, d’appena avviate, che posso, se non altro, rompere a mezzo: una ne ho, che posso romper subito, disfare, riparare.

Federigo si mise in attenzione; e l’innominato raccontò brevemente, ma con parole d’esecrazione anche più forti di quelle che abbiamo adoprato noi, la prepotenza fatta a Lucia, i terrori, i patimenti della poverina, e come aveva implorato, e la smania che quell’implorare aveva messa addosso a lui, e come essa era ancor nel castello…

– Ah, non perdiam tempo! – esclamò Federigo, ansante di pietà e di sollecitudine. – Beato voi! Questo è pegno del perdono di Dio! far che possiate diventare strumento di salvezza a chi volevate esser di rovina. Dio vi benedica! Dio v’ha benedetto! Sapete di dove sia questa povera nostra travagliata?

Il signore nominò il paese di Lucia.

– Non è lontano di qui, – disse il cardinale: – lodato sia Dio; e probabilmente… – Così dicendo, corse a un tavolino, e scosse un campanello. E subito entrò con ansietà il cappellano crocifero, e per la prima cosa, guardò l’innominato; e vista quella faccia mutata, e quegli occhi rossi di pianto, guardò il cardinale; e sotto quell’inalterabile compostezza, scorgendogli in volto come un grave contento, e una premura quasi impaziente, era per rimanere estatico con la bocca aperta, se il cardinale non l’avesse subito svegliato da quella contemplazione, domandandogli se, tra i parrochi radunati lì, si trovasse quello di ***.

– C’è, monsignore illustrissimo, – rispose il cappellano.

– Fatelo venir subito, – disse Federigo, – e con lui il parroco qui della chiesa.

Il cappellano uscì, e andò nella stanza dov’eran que’ preti riuniti: tutti gli occhi si rivolsero a lui. Lui, con la bocca tuttavia aperta, col viso ancor tutto dipinto di quell’estasi, alzando le mani, e movendole per aria, disse: – signori! signori! haec mutatio dexterae Excelsi–. E stette un momento senza dir altro. Poi, ripreso il tono e la voce della carica, soggiunse: – sua signoria illustrissima e reverendissima vuole il signor curato della parrocchia, e il signor curato di ***.

Il primo chiamato venne subito avanti, e nello stesso tempo, uscì di mezzo alla folla un: – io? – strascicato, con un’intonazione di maraviglia.

– Non è lei il signor curato di ***? – riprese il cappellano.

– Per l’appunto; ma…

– Sua signoria illustrissima e reverendissima vuol lei.

– Me? – disse ancora quella voce, significando chiaramente in quel monosillabo: come ci posso entrar io? Ma questa volta, insieme con la voce, venne fuori l’uomo, don Abbondio in persona, con un passo forzato, e con un viso tra l’attonito e il disgustato. Il cappellano gli fece un cenno con la mano, che voleva dire: a noi, andiamo; ci vuol tanto? E precedendo i due curati, andò all’uscio, l’aprì, e gl’introdusse.

Il cardinale lasciò andar la mano dell’innominato, col quale intanto aveva concertato quello che dovevan fare; si discostò un poco, e chiamò con un cenno il curato della chiesa. Gli disse in succinto di che si trattava; e se saprebbe trovar subito una buona donna che volesse andare in una lettiga al castello, a prender Lucia: una donna di cuore e di testa, da sapersi ben governare in una spedizione così nuova, e usar le maniere più a proposito, trovar le parole più adattate, a rincorare, a tranquillizzare quella poverina, a cui, dopo tante angosce, e in tanto turbamento, la liberazione stessa poteva metter nell’animo una nuova confusione. Pensato un momento, il curato disse che aveva la persona a proposito, e uscì. Il cardinale chiamò con un altro cenno il cappellano, al quale ordinò che facesse preparare subito la lettiga e i lettighieri, e sellare due mule. Uscito anche il cappellano, si voltò a don Abbondio.

Questo, che già gli era vicino, per tenersi lontano da quell’altro signore, e che intanto dava un’occhiatina di sotto in su ora all’uno ora all’altro, seguitando a almanaccar tra sé che cosa mai potesse essere tutto quel rigirìo, s’accostò di più, fece una riverenza, e disse: – m’hanno significato che vossignoria illustrissima mi voleva me; ma io credo che abbiano sbagliato.

– Non hanno sbagliato, – rispose Federigo: – ho una buona nuova da darvi, e un consolante, un soavissimo incarico. Una vostra parrocchiana, che avrete pianta per ismarrita, Lucia Mondella, è ritrovata, è qui vicino, in casa di questo mio caro amico; e voi anderete ora con lui, e con una donna che il signor curato di qui è andato a cercare, anderete, dico, a prendere quella vostra creatura, e l’accompagnerete qui.

Don Abbondio fece di tutto per nascondere la noia, che dico? l’affanno e l’amaritudine che gli dava una tale proposta, o comando che fosse; e non essendo più a tempo a sciogliere e a scomporre un versaccio già formato sulla sua faccia, lo nascose, chinando profondamente la testa, in segno d’ubbidienza. E non l’alzò che per fare un altro profondo inchino all’innominato, con un’occhiata pietosa che diceva: sono nelle vostre mani: abbiate misericordia: parcere subjectis.

Gli domandò poi il cardinale, che parenti avesse Lucia.

– Di stretti, e con cui viva, o vivesse, non ha che la madre, – rispose don Abbondio.

– E questa si trova al suo paese?

– Monsignor, sì.

– Giacché, – riprese Federigo, – quella povera giovine non potrà esser così presto restituita a casa sua, le sarà una gran consolazione di veder subito la madre: quindi, se il signor curato di qui non torna prima ch’io vada in chiesa, fatemi voi il piacere di dirgli che trovi un baroccio o una cavalcatura; e spedisca un uomo di giudizio a cercar quella donna, per condurla qui.

– E se andassi io? – disse don Abbondio.

– No, no, voi: v’ho già pregato d’altro, – rispose il cardinale.

– Dicevo, – replicò don Abbondio, – per disporre quella povera madre. È una donna molto sensitiva; e ci vuole uno che la conosca, e la sappia prendere per il suo verso, per non farle male in vece di bene.

– E per questo, vi prego d’avvertire il signor curato che scelga un uomo di proposito: voi siete molto più necessario altrove, – rispose il cardinale. E avrebbe voluto dire: quella povera giovine ha molto più bisogno di veder subito una faccia conosciuta, una persona sicura, in quel castello, dopo tant’ore di spasimo, e in una terribile oscurità dell’avvenire. Ma questa non era ragione da dirsi così chiaramente davanti a quel terzo. Parve però strano al cardinale che don Abbondio non l’avesse intesa per aria, anzi pensata da sé; e così fuor di luogo gli parve la proposta e l’insistenza, che pensò doverci esser sotto qualche cosa. Lo guardò in viso, e vi scoprì facilmente la paura di viaggiare con quell’uomo tremendo, d’andare in quella casa, anche per pochi momenti. Volendo quindi dissipare affatto quell’ombre codarde, e non piacendogli di tirare in disparte il curato e di bisbigliar con lui in segreto, mentre il suo nuovo amico era lì in terzo, pensò che il mezzo più opportuno era di far ciò che avrebbe fatto anche senza questo motivo, parlare all’innominato medesimo; e dalle sue risposte don Abbondio intenderebbe finalmente che quello non era più uomo da averne paura. S’avvicinò dunque all’innominato, e con quell’aria di spontanea confidenza, che si trova in una nuova e potente affezione, come in un’antica intrinsichezza, – non crediate, – gli disse, – ch’io mi contenti di questa visita per oggi. Voi tornerete, n’è vero? in compagnia di questo ecclesiastico dabbene?

– S’io tornerò? – rispose l’innominato: – quando voi mi rifiutaste, rimarrei ostinato alla vostra porta, come il povero. Ho bisogno di parlarvi! ho bisogno di sentirvi, di vedervi! ho bisogno di voi!

Federigo gli prese la mano, gliela strinse, e disse: – favorirete dunque di restare a desinare con noi. V’aspetto. Intanto, io vo a pregare, e a render grazie col popolo; e voi a cogliere i primi frutti della misericordia.

Don Abbondio, a quelle dimostrazioni, stava come un ragazzo pauroso, che veda uno accarezzar con sicurezza un suo cagnaccio grosso, rabbuffato, con gli occhi rossi, con un nomaccio famoso per morsi e per ispaventi, e senta dire al padrone che il suo cane è un buon bestione, quieto, quieto: guarda il padrone, e non contraddice né approva; guarda il cane, e non ardisce accostarglisi, per timore che il buon bestione non gli mostri i denti, fosse anche per fargli le feste; non ardisce allontanarsi, per non farsi scorgere; e dice in cuor suo: oh se fossi a casa mia!

Al cardinale, che s’era mosso per uscire, tenendo sempre per la mano e conducendo seco l’innominato, diede di nuovo nell’occhio il pover’uomo, che rimaneva indietro, mortificato, malcontento, facendo il muso senza volerlo. E pensando che forse quel dispiacere gli potesse anche venire dal parergli d’esser trascurato, e come lasciato in un canto, tanto più in paragone d’un facinoroso così ben accolto, così accarezzato, se gli voltò nel passare, si fermò un momento, e con un sorriso amorevole, gli disse: – signor curato, voi siete sempre con me nella casa del nostro buon Padre; ma questo… questo perierat, et inventus est.

– Oh quanto me ne rallegro! – disse don Abbondio, facendo una gran riverenza a tutt’e due in comune.

L’arcivescovo andò avanti, spinse l’uscio, che fu subito spalancato di fuori da due servitori, che stavano uno di qua e uno di là: e la mirabile coppia apparve agli sguardi bramosi del clero raccolto nella stanza. Si videro que’ due volti sui quali era dipinta una commozione diversa, ma ugualmente profonda; una tenerezza riconoscente, un’umile gioia nell’aspetto venerabile di Federigo; in quello dell’innominato, una confusione temperata di conforto, un nuovo pudore, una compunzione, dalla quale però traspariva tuttavia il vigore di quella selvaggia e risentita natura. E si seppe poi, che a più d’uno de’ riguardanti era allora venuto in mente quel detto d’Isaia: il lupo e l’agnello andranno ad un pascolo; il leone e il bue mangeranno insieme lo strame. Dietro veniva don Abbondio, a cui nessuno badò.

Quando furono nel mezzo della stanza, entrò dall’altra parte l’aiutante di camera del cardinale, e gli s’accostò, per dirgli che aveva eseguiti gli ordini comunicatigli dal cappellano; che la lettiga e le due mule eran preparate, e s’aspettava soltanto la donna che il curato avrebbe condotta. Il cardinale gli disse che, appena arrivato questo, lo facesse parlar subito con don Abbondio: e tutto poi fosse agli ordini di questo e dell’innominato; al quale strinse di nuovo la mano, in atto di commiato, dicendo: – v’aspetto –. Si voltò a salutar don Abbondio, e s’avviò dalla parte che conduceva alla chiesa. Il clero gli andò dietro, tra in folla e in processione: i due compagni di viaggio rimasero soli nella stanza.

Stava l’innominato tutto raccolto in sé, pensieroso, impaziente che venisse il momento d’andare a levar di pene e di carcere la sua Lucia: sua ora in un senso così diverso da quello che lo fosse il giorno avanti: e il suo viso esprimeva un’agitazione concentrata, che all’occhio ombroso di don Abbondio poteva facilmente parere qualcosa di peggio. Lo sogguardava, avrebbe voluto attaccare un discorso amichevole; ma, “cosa devo dirgli? – pensava: – devo dirgli ancora: mi rallegro? Mi rallegro di che? che essendo stato finora un demonio, vi siate finalmente risoluto di diventare un galantuomo come gli altri? Bel complimento! Eh eh eh! in qualunque maniera io le rigiri, le congratulazioni non vorrebbero dir altro che questo. E se sarà poi vero che sia diventato galantuomo: così a un tratto! Delle dimostrazioni se ne fanno tante a questo mondo, e per tante cagioni! Che so io, alle volte? E intanto mi tocca a andar con lui! in quel castello! Oh che storia! che storia! che storia! Chi me l’avesse detto stamattina! Ah, se posso uscirne a salvamento, m’ha da sentire la signora Perpetua, d’avermi cacciato qui per forza, quando non c’era necessità, fuor della mia pieve: e che tutti i parrochi d’intorno accorrevano, anche più da lontano; e che non bisognava stare indietro; e che questo, e che quest’altro; e imbarcarmi in un affare di questa sorte! Oh povero me! Eppure qualcosa bisognerà dirgli a costui”. E pensa e ripensa, aveva trovato che gli avrebbe potuto dire: non mi sarei mai aspettato questa fortuna d’incontrarmi in una così rispettabile compagnia; e stava per aprir bocca, quando entrò l’aiutante di camera, col curato del paese, il quale annunziò che la donna era pronta nella lettiga; e poi si voltò a don Abbondio, per ricevere da lui l’altra commissione del cardinale. Don Abbondio se ne sbrigò come poté, in quella confusione di mente; e accostatosi poi all’aiutante, gli disse: – mi dia almeno una bestia quieta; perché, dico la verità, sono un povero cavalcatore.

– Si figuri, – rispose l’aiutante, con un mezzo sogghigno: – è la mula del segretario, che è un letterato.

– Basta… – replicò don Abbondio, e continuò pensando: “il cielo me la mandi buona”.

Il signore s’era incamminato di corsa, al primo avviso: arrivato all’uscio, s’accorse di don Abbondio, ch’era rimasto indietro. Si fermò ad aspettarlo; e quando questo arrivò frettoloso, in aria di chieder perdono, l’inchinò, e lo fece passare avanti, con un atto cortese e umile: cosa che raccomodò alquanto lo stomaco al povero tribolato. Ma appena messo piede nel cortiletto, vide un’altra novità che gli guastò quella poca consolazione; vide l’innominato andar verso un canto, prender per la canna, con una mano, la sua carabina, poi per la cigna con l’altra, e, con un movimento spedito, come se facesse l’esercizio, mettersela ad armacollo.

“Ohi! ohi! ohi! – pensò don Abbondio: – cosa vuol farne di quell’ordigno, costui? Bel cilizio, bella disciplina da convertito! E se gli salta qualche grillo? Oh che spedizione! oh che spedizione!”

Se quel signore avesse potuto appena sospettare che razza di pensieri passavano per la testa al suo compagno, non si può dire cosa avrebbe fatto per rassicurarlo; ma era lontano le mille miglia da un tal sospetto; e don Abbondio stava attento a non far nessun atto che significasse chiaramente: non mi fido di vossignoria. Arrivati all’uscio di strada, trovarono le due cavalcature in ordine: l’innominato saltò su quella che gli fu presentata da un palafreniere.

– Vizi non ne ha? – disse all’aiutante di camera don Abbondio, rimettendo in terra il piede, che aveva già alzato verso la staffa.

– Vada pur su di buon animo: è un agnello –. Don Abbondio, arrampicandosi alla sella, sorretto dall’aiutante, su, su, su, è a cavallo.

La lettiga, ch’era innanzi qualche passo, portata da due mule, si mosse, a una voce del lettighiero; e la comitiva partì.

Si doveva passar davanti alla chiesa piena zeppa di popolo, per una piazzetta piena anch’essa d’altro popolo del paese e forestieri, che non avevan potuto entrare in quella. Già la gran nuova era corsa; e all’apparir della comitiva, all’apparir di quell’uomo, oggetto ancor poche ore prima di terrore e d’esecrazione, ora di lieta maraviglia, s’alzò nella folla un mormorìo quasi d’applauso; e facendo largo, si faceva insieme alle spinte, per vederlo da vicino. La lettiga passò, l’innominato passò; e davanti alla porta spalancata della chiesa, si levò il cappello, e chinò quella fronte tanto temuta, fin sulla criniera della mula, tra il susurro di cento voci che dicevano: Dio la benedica! Don Abbondio si levò anche lui il cappello, si chinò, si raccomandò al cielo; ma sentendo il concerto solenne de’ suoi confratelli che cantavano a distesa, provò un’invidia, una mesta tenerezza, un accoramento tale, che durò fatica a tener le lacrime.

Fuori poi dell’abitato, nell’aperta campagna, negli andirivieni talvolta affatto deserti della strada, un velo più nero si stese sui suoi pensieri. Altro oggetto non aveva su cui riposar con fiducia lo sguardo, che il lettighiero, il quale, essendo al servizio del cardinale, doveva essere certamente un uomo dabbene, e insieme non aveva aria d’imbelle. Ogni tanto, comparivano viandanti, anche a comitive, che accorrevano per vedere il cardinale; ed era un ristoro per don Abbondio; ma passeggiero, ma s’andava verso quella valle tremenda, dove non s’incontrerebbe che sudditi dell’amico: e che sudditi! Con l’amico avrebbe desiderato ora più che mai d’entrare in discorso, tanto per tastarlo sempre più, come per tenerlo in buona; ma vedendolo così soprappensiero, gliene passava la voglia. Dovette dunque parlar con se stesso; ed ecco una parte di ciò che il pover’uomo si disse in quel tragitto: ché, a scriver tutto, ci sarebbe da farne un libro.

“È un gran dire che tanto i santi come i birboni gli abbiano a aver l’argento vivo addosso, e non si contentino d’esser sempre in moto loro, ma voglian tirare in ballo, se potessero, tutto il genere umano; e che i più faccendoni mi devan proprio venire a cercar me, che non cerco nessuno, e tirarmi per i capelli ne’ loro affari: io che non chiedo altro che d’esser lasciato vivere! Quel matto birbone di don Rodrigo! Cosa gli mancherebbe per esser l’uomo il più felice di questo mondo, se avesse appena un pochino di giudizio? Lui ricco, lui giovine, lui rispettato, lui corteggiato: gli dà noia il bene stare; e bisogna che vada accattando guai per sé e per gli altri. Potrebbe far l’arte di Michelaccio; no signore: vuol fare il mestiere di molestar le femmine: il più pazzo, il più ladro, il più arrabbiato mestiere di questo mondo; potrebbe andare in paradiso in carrozza, e vuol andare a casa del diavolo a piè zoppo. E costui…!” E qui lo guardava, come se avesse sospetto che quel costui sentisse i suoi pensieri, “costui, dopo aver messo sottosopra il mondo con le scelleratezze, ora lo mette sottosopra con la conversione… se sarà vero. Intanto tocca a me a farne l’esperienza!… È finita: quando son nati con quella smania in corpo, bisogna che faccian sempre fracasso. Ci vuol tanto a fare il galantuomo tutta la vita, com’ho fatt’io? No signore: si deve squartare, ammazzare, fare il diavolo… oh povero me!… e poi uno scompiglio, anche per far penitenza. La penitenza, quando s’ha buona volontà, si può farla a casa sua, quietamente, senza tant’apparato, senza dar tant’incomodo al prossimo. E sua signoria illustrissima, subito subito, a braccia aperte, caro amico, amico caro; stare a tutto quel che gli dice costui, come se l’avesse visto far miracoli; e prendere addirittura una risoluzione, mettercisi dentro con le mani e co’ piedi, presto di qua, presto di là: a casa mia si chiama precipitazione. E senza avere una minima caparra, dargli in mano un povero curato! questo si chiama giocare un uomo a pari e caffo. Un vescovo santo, com’è lui, de’ curati dovrebbe esserne geloso, come della pupilla degli occhi suoi. Un pochino di flemma, un pochino di prudenza, un pochino di carità, mi pare che possa stare anche con la santità… E se fosse tutto un’apparenza? Chi può conoscer tutti i fini degli uomini? e dico degli uomini come costui? A pensare che mi tocca a andar con lui, a casa sua! Ci può esser sotto qualche diavolo: oh povero me! è meglio non ci pensare. Che imbroglio è questo di Lucia? Che ci fosse un’intesa con don Rodrigo? che gente! ma almeno la cosa sarebbe chiara. Ma come l’ha avuta nell’unghie costui? Chi lo sa? È tutto un segreto con monsignore: e a me che mi fanno trottare in questa maniera, non si dice nulla. Io non mi curo di sapere i fatti degli altri; ma quando uno ci ha a metter la pelle, ha anche ragione di sapere. Se fosse proprio per andare a prendere quella povera creatura, pazienza! Benché, poteva ben condurla con sé addirittura. E poi, se è così convertito, se è diventato un santo padre, che bisogno c’era di me? Oh che caos! Basta; voglia il cielo che la sia così: sarà stato un incomodo grosso, ma pazienza! Sarò contento anche per quella povera Lucia: anche lei deve averla scampata grossa; sa il cielo cos’ha patito: la compatisco; ma è nata per la mia rovina… Almeno potessi vedergli proprio in cuore a costui, come la pensa. Chi lo può conoscere? Ecco lì, ora pare sant’Antonio nel deserto; ora pare Oloferne in persona. Oh povero me! povero me! Basta: il cielo è in obbligo d’aiutarmi, perché non mi ci son messo io di mio capriccio”.

Infatti, sul volto dell’innominato si vedevano, per dir così, passare i pensieri, come, in un’ora burrascosa, le nuvole trascorrono dinanzi alla faccia del sole, alternando ogni momento una luce arrabbiata e un freddo buio. L’animo, ancor tutto inebriato dalle soavi parole di Federigo, e come rifatto e ringiovanito nella nuova vita, s’elevava a quell’idee di misericordia, di perdono e d’amore; poi ricadeva sotto il peso del terribile passato. Correva con ansietà a cercare quali fossero le iniquità riparabili, cosa si potesse troncare a mezzo, quali i rimedi più espedienti e più sicuri, come scioglier tanti nodi, che fare di tanti complici: era uno sbalordimento a pensarci. A quella stessa spedizione, ch’era la più facile e così vicina al termine, andava con un’impazienza mista d’angoscia, pensando che intanto quella creatura pativa, Dio sa quanto, e che lui, il quale pure si struggeva di liberarla, era lui che la teneva intanto a patire. Dove c’eran due strade, il lettighiero si voltava, per saper quale dovesse prendere: l’innominato gliel’indicava con la mano, e insieme accennava di far presto.

Entrano nella valle. Come stava allora il povero don Abbondio! Quella valle famosa, della quale aveva sentito raccontar tante storie orribili, esserci dentro: que’ famosi uomini, il fiore della braveria d’Italia, quegli uomini senza paura e senza misericordia, vederli in carne e in ossa; incontrarne uno o due o tre a ogni voltata di strada. Si chinavano sommessamente al signore; ma certi visi abbronzati! certi baffi irti! certi occhiacci, che a don Abbondio pareva che volessero dire: fargli la festa a quel prete? A segno che, in un punto di somma costernazione, gli venne detto tra sé: “gli avessi maritati! non mi poteva accader di peggio”. Intanto s’andava avanti per un sentiero sassoso, lungo il torrente: al di là quel prospetto di balze aspre, scure, disabitate; al di qua quella popolazione da far parer desiderabile ogni deserto: Dante non istava peggio nel mezzo di Malebolge.

Passan davanti la Malanotte; bravacci sull’uscio, inchini al signore, occhiate al suo compagno e alla lettiga. Coloro non sapevan cosa si pensare: già la partenza dell’innominato solo, la mattina, aveva dello straordinario; il ritorno non lo era meno. Era una preda che conduceva? E come l’aveva fatta da sé? E come una lettiga forestiera? E di chi poteva esser quella livrea? Guardavano, guardavano, ma nessuno si moveva, perché questo era l’ordine che il padrone dava loro con dell’occhiate.

Fanno la salita, sono in cima. I bravi che si trovan sulla spianata e sulla porta, si ritirano di qua e di là, per lasciare il passo libero: l’innominato fa segno che non si movan di più; sprona, e passa davanti alla lettiga; accenna al lettighiero e a don Abbondio che lo seguano; entra in un primo cortile, da quello in un secondo; va verso un usciolino, fa stare indietro con un gesto un bravo che accorreva per tenergli la staffa, e gli dice: – tu sta’ costì, e non venga nessuno –. Smonta, lega in fretta la mula a un’inferriata, va alla lettiga, s’accosta alla donna, che aveva tirata la tendina, e le dice sottovoce: – consolatela subito; fatele subito capire che è libera, in mano d’amici. Dio ve ne renderà merito –. Poi fa cenno al lettighiero, che apra; poi s’avvicina a don Abbondio, e, con un sembiante così sereno come questo non gliel aveva ancor visto, né credeva che lo potesse avere, con dipintavi la gioia dell’opera buona che finalmente stava per compire, gli dice, ancora sotto voce: – signor curato, non le chiedo scusa dell’incomodo che ha per cagion mia: lei lo fa per Uno che paga bene, e per questa sua poverina –. Ciò detto, prende con una mano il morso, con l’altra la staffa, per aiutar don Abbondio a scendere.

Quel volto, quelle parole, quell’atto, gli avevan dato la vita. Mise un sospiro, che da un’ora gli s’aggirava dentro, senza mai trovar l’uscita; si chinò verso l’innominato, rispose a voce bassa bassa: – le pare? Ma, ma, ma, ma,…! – e sdrucciolò alla meglio dalla sua cavalcatura. L’innominato legò anche quella, e detto al lettighiero che stesse lì a aspettare, si levò una chiave di tasca, aprì l’uscio, entrò, fece entrare il curato e la donna, s’avviò davanti a loro alla scaletta; e tutt’e tre salirono in silenzio. 

* * *

CAPITOLO XXIV

Lucia s’era risentita da poco tempo; e di quel tempo una parte aveva penato a svegliarsi affatto, a separar le torbide visioni del sonno dalle memorie e dall’immagini di quella realtà troppo somigliante a una funesta visione d’infermo. La vecchia le si era subito avvicinata, e, con quella voce forzatamente umile, le aveva detto: – ah! avete dormito? Avreste potuto dormire in letto: ve l’ho pur detto tante volte ier sera –. E non ricevendo risposta, aveva continuato, sempre con un tono di supplicazione stizzosa: – mangiate una volta: abbiate giudizio. Uh come siete brutta! Avete bisogno di mangiare. E poi se, quando torna, la piglia con me?

– No, no; voglio andar via, voglio andar da mia madre. Il padrone me l’ha promesso, ha detto: domattina. Dov’è il padrone?

– È uscito; m’ha detto che tornerà presto, e che farà tutto quel che volete.

– Ha detto così? ha detto così? Ebbene; io voglio andar da mia madre; subito, subito.

Ed ecco si sente un calpestìo nella stanza vicina; poi un picchio all’uscio. La vecchia accorre, domanda: – chi è?

– Apri, – risponde sommessamente la nota voce. La vecchia tira il paletto; l’innominato, spingendo leggermente i battenti, fa un po’ di spiraglio: ordina alla vecchia di venir fuori, fa entrar subito don Abbondio con la buona donna. Socchiude poi di nuovo l’uscio, si ferma dietro a quello, e manda la vecchia in una parte lontana del castellaccio; come aveva già mandata via anche l’altra donna che stava fuori, di guardia.

Tutto questo movimento, quel punto d’aspetto, il primo apparire di persone nuove, cagionarono un soprassalto d’agitazione a Lucia, alla quale, se lo stato presente era intollerabile, ogni cambiamento però era motivo di sospetto e di nuovo spavento. Guardò, vide un prete, una donna; si rincorò alquanto: guarda più attenta: è lui, o non è lui? Riconosce don Abbondio, e rimane con gli occhi fissi, come incantata. La donna, andatale vicino, si chinò sopra di lei, e, guardandola pietosamente, prendendole le mani, come per accarezzarla e alzarla a un tempo, le disse: – oh poverina! venite, venite con noi.

– Chi siete? – le domandò Lucia; ma, senza aspettar la risposta, si voltò ancora a don Abbondio, che s’era trattenuto discosto due passi, con un viso, anche lui, tutto compassionevole; lo fissò di nuovo, e esclamò: – lei! è lei? il signor curato? Dove siamo?… Oh povera me! son fuori di sentimento!

– No, no, – rispose don Abbondio: – son io davvero: fatevi coraggio. Vedete? siam qui per condurvi via. Son proprio il vostro curato, venuto qui apposta, a cavallo…

Lucia, come riacquistate in un tratto tutte le sue forze, si rizzò precipitosamente; poi fissò ancora lo sguardo su que’ due visi, e disse: – è dunque la Madonna che vi ha mandati.

– Io credo di sì, – disse la buona donna.

– Ma possiamo andar via, possiamo andar via davvero? – riprese Lucia, abbassando la voce, e con uno sguardo timido e sospettoso. – E tutta quella gente…? – continuò, con le labbra contratte e tremanti di spavento e d’orrore: – e quel signore…! quell’uomo…! Già, me l’aveva promesso…

– È qui anche lui in persona, venuto apposta con noi, – disse don Abbondio: – è qui fuori che aspetta. Andiamo presto; non lo facciamo aspettare, un par suo.

Allora, quello di cui si parlava, spinse l’uscio, e si fece vedere; Lucia, che poco prima lo desiderava, anzi, non avendo speranza in altra cosa del mondo, non desiderava che lui, ora, dopo aver veduti visi, e sentite voci amiche, non poté reprimere un subitaneo ribrezzo; si riscosse, ritenne il respiro, si strinse alla buona donna, e le nascose il viso in seno. L’innominato, alla vista di quell’aspetto sul quale già la sera avanti non aveva potuto tener fermo lo sguardo, di quell’aspetto reso ora più squallido, sbattuto, affannato dal patire prolungato e dal digiuno, era rimasto lì fermo, quasi sull’uscio; nel veder poi quell’atto di terrore, abbassò gli occhi, stette ancora un momento immobile e muto; indi rispondendo a ciò che la poverina non aveva detto, – è vero, – esclamò: – perdonatemi!

– Viene a liberarvi; non è più quello; è diventato buono: sentite che vi chiede perdono? – diceva la buona donna all’orecchio di Lucia.

– Si può dir di più? Via, su quella testa; non fate la bambina; che possiamo andar presto, – le diceva don Abbondio. Lucia alzò la testa, guardò l’innominato, e, vedendo bassa quella fronte, atterrato e confuso quello sguardo, presa da un misto sentimento di conforto, di riconoscenza e di pietà, disse: – oh, il mio signore! Dio le renda merito della sua misericordia!

– E a voi, cento volte, il bene che mi fanno codeste vostre parole.

Così detto, si voltò, andò verso l’uscio, e uscì il primo. Lucia, tutta rianimata, con la donna che le dava braccio, gli andò dietro; don Abbondio in coda. Scesero la scala, arrivarono all’uscio che metteva nel cortile. L’innominato lo spalancò, andò alla lettiga, aprì lo sportello, e, con una certa gentilezza quasi timida (due cose nuove in lui) sorreggendo il braccio di Lucia, l’aiutò ad entrarvi, poi la buona donna. Slegò quindi la mula di don Abbondio, e l’aiutò anche lui a montare.

– Oh che degnazione! – disse questo; e montò molto più lesto che non avesse fatto la prima volta. La comitiva si mosse quando l’innominato fu anche lui a cavallo. La sua fronte s’era rialzata; lo sguardo aveva ripreso la solita espressione d’impero. I bravi che incontrava, vedevan bene sul suo viso i segni d’un forte pensiero, d’una preoccupazione straordinaria; ma non capivano, né potevan capire più in là. Al castello, non si sapeva ancor nulla della gran mutazione di quell’uomo; e per congettura, certo, nessun di coloro vi sarebbe arrivato.

La buona donna aveva subito tirate le tendine della lettiga: prese poi affettuosamente le mani di Lucia, s’era messa a confortarla, con parole di pietà, di congratulazione e di tenerezza. E vedendo come, oltre la fatica di tanto travaglio sofferto, la confusione e l’oscurità degli avvenimenti impedivano alla poverina di sentir pienamente la contentezza della sua liberazione, le disse quanto poteva trovar di più atto a distrigare, a ravviare, per dir così, i suoi poveri pensieri. Le nominò il paese dove andavano.

– Sì? – disse Lucia, la qual sapeva ch’era poco discosto dal suo. – Ah Madonna santissima, vi ringrazio! Mia madre! mia madre!

– La manderemo a cercar subito, – disse la buona donna, la quale non sapeva che la cosa era già fatta.

– Sì, sì; che Dio ve ne renda merito… E voi, chi siete? Come siete venuta…

– M’ha mandata il nostro curato, – disse la buona donna: – perché questo signore, Dio gli ha toccato il cuore (sia benedetto!), ed è venuto al nostro paese, per parlare al signor cardinale arcivescovo (che l’abbiamo là in visita, quel sant’uomo), e s’è pentito de’ suoi peccatacci, e vuol mutar vita; e ha detto al cardinale che aveva fatta rubare una povera innocente, che siete voi, d’intesa con un altro senza timor di Dio, che il curato non m’ha detto chi possa essere.

Lucia alzò gli occhi al cielo.

– Lo saprete forse voi, – continuò la buona donna: – basta; dunque il signor cardinale ha pensato che, trattandosi d’una giovine, ci voleva una donna per venire in compagnia, e ha detto al curato che ne cercasse una; e il curato, per sua bontà, è venuto da me…

– Oh! il Signore vi ricompensi della vostra carità!

– Che dite mai, la mia povera giovine? E m’ha detto il signor curato, che vi facessi coraggio, e cercassi di sollevarvi subito, e farvi intendere come il Signore v’ha salvata miracolosamente…

– Ah sì! proprio miracolosamente; per intercession della Madonna.

– Dunque, che stiate di buon animo, e perdonare a chi v’ha fatto del male, e esser contenta che Dio gli abbia usata misericordia, anzi pregare per lui; ché, oltre all’acquistarne merito, vi sentirete anche allargare il cuore.

Lucia rispose con uno sguardo che diceva di sì, tanto chiaro come avrebbero potuto far le parole, e con una dolcezza che le parole non avrebbero saputa esprimere.

– Brava giovine! – riprese la donna: – e trovandosi al nostro paese anche il vostro curato (che ce n’è tanti tanti, di tutto il contorno, da mettere insieme quattro ufizi generali), ha pensato il signor cardinale di mandarlo anche lui in compagnia; ma è stato di poco aiuto. Già l’avevo sentito dire ch’era un uomo da poco; ma in quest’occasione, ho dovuto proprio vedere che è più impicciato che un pulcin nella stoppa.

– E questo… – domandò Lucia, – questo che è diventato buono… chi è?

– Come! non lo sapete? – disse la buona donna, e lo nominò.

– Oh misericordia! – esclamò Lucia. Quel nome, quante volte l’aveva sentito ripetere con orrore in più d’una storia, in cui figurava sempre come in altre storie quello dell’orco! E ora, al pensiero d’essere stata nel suo terribil potere, e d’essere sotto la sua guardia pietosa; al pensiero d’una così orrenda sciagura, e d’una così improvvisa redenzione; a considerare di chi era quel viso che aveva veduto burbero, poi commosso, poi umiliato, rimaneva come estatica, dicendo solo, ogni poco: – oh misericordia!

– È una gran misericordia davvero! – diceva la buona donna: – dev’essere un gran sollievo per mezzo mondo. A pensare quanta gente teneva sottosopra; e ora, come m’ha detto il nostro curato… e poi, solo a guardarlo in viso, è diventato un santo! E poi si vedon subito le opere.

Dire che questa buona donna non provasse molta curiosità di conoscere un po’ più distintamente la grand’avventura nella quale si trovava a fare una parte, non sarebbe la verità. Ma bisogna dire a sua gloria che, compresa d’una pietà rispettosa per Lucia, sentendo in certo modo la gravità e la dignità dell’incarico che le era stato affidato, non pensò neppure a farle una domanda indiscreta, né oziosa: tutte le sue parole, in quel tragitto, furono di conforto e di premura per la povera giovine.

– Dio sa quant’è che non avete mangiato!

– Non me ne ricordo più… Da un pezzo.

– Poverina! Avrete bisogno di ristorarvi.

– Sì, – rispose Lucia con voce fioca.

– A casa mia, grazie a Dio, troveremo subito qualcosa. Fatevi coraggio, che ormai c’è poco.

Lucia si lasciava poi cader languida sul fondo della lettiga, come assopita; e allora la buona donna la lasciava in riposo.

Per don Abbondio questo ritorno non era certo così angoscioso come l’andata di poco prima; ma non fu neppur esso un viaggio di piacere. Al cessar di quella pauraccia, s’era da principio sentito tutto scarico, ma ben presto cominciarono a spuntargli in cuore cent’altri dispiaceri; come, quand’è stato sbarbato un grand’albero, il terreno rimane sgombro per qualche tempo, ma poi si copre tutto d’erbacce. Era diventato più sensibile a tutto il resto; e tanto nel presente, quanto ne’ pensieri dell’avvenire, non gli mancava pur troppo materia di tormentarsi. Sentiva ora, molto più che nell’andare, l’incomodo di quel modo di viaggiare, al quale non era molto avvezzo; e specialmente sul principio, nella scesa dal castello al fondo della valle. Il lettighiero, stimolato da’ cenni dell’innominato, faceva andar di buon passo le sue bestie; le due cavalcature andavan dietro dietro, con lo stesso passo; onde seguiva che, a certi luoghi più ripidi, il povero don Abbondio, come se fosse messo a leva per di dietro, tracollava sul davanti, e, per reggersi, doveva appuntellarsi con la mano all’arcione; e non osava però pregare che s’andasse più adagio, e dall’altra parte avrebbe voluto esser fuori di quel paese più presto che fosse possibile. Oltre di ciò, dove la strada era sur un rialto, sur un ciglione, la mula, secondo l’uso de’ pari suoi, pareva che facesse per dispetto a tener sempre dalla parte di fuori, e a metter proprio le zampe sull’orlo; e don Abbondio vedeva sotto di sé, quasi a perpendicolo, un salto, o come pensava lui, un precipizio. “Anche tu, – diceva tra sé alla bestia, – hai quel maledetto gusto d’andare a cercare i pericoli, quando c’è tanto sentiero!” E tirava la briglia dall’altra parte; ma inutilmente. Sicché, al solito, rodendosi di stizza e di paura, si lasciava condurre a piacere altrui. I bravi non gli facevan più tanto spavento, ora che sapeva più di certo come la pensava il padrone. “Ma, – rifletteva però, – se la notizia di questa gran conversione si sparge qua dentro, intanto che ci siamo ancora, chi sa come l’intenderanno costoro! Chi sa cosa nasce! Che s’andassero a immaginare che sia venuto io a fare il missionario! Povero me! mi martirizzano!” Il cipiglio dell’innominato non gli dava fastidio. “Per tenere a segno quelle facce lì, – pensava, – non ci vuol meno di questa qui; lo capisco anch’io; ma perché deve toccare a me a trovarmi tra tutti costoro!”

Basta; s’arrivò in fondo alla scesa, e s’uscì finalmente anche dalla valle. La fronte dell’innominato s’andò spianando. Anche don Abbondio prese una faccia più naturale, sprigionò alquanto la testa di tra le spalle, sgranchì le braccia e le gambe, si mise a stare un po’ più sulla vita, che faceva un tutt’altro vedere, mandò più larghi respiri, e, con animo più riposato, si mise a considerare altri lontani pericoli. “Cosa dirà quel bestione di don Rodrigo? Rimaner con tanto di naso a questo modo, col danno e con le beffe, figuriamoci se la gli deve parere amara. Ora è quando fa il diavolo davvero. Sta a vedere che se la piglia anche con me, perché mi son trovato dentro in questa cerimonia. Se ha avuto cuore fin d’allora di mandare que’ due demòni a farmi una figura di quella sorte sulla strada, ora poi, chi sa cosa farà! Con sua signoria illustrissima non la può prendere, che è un pezzo molto più grosso di lui; lì bisognerà rodere il freno. Intanto il veleno l’avrà in corpo, e sopra qualcheduno lo vorrà sfogare. Come finiscono queste faccende? I colpi cascano sempre all’ingiù; i cenci vanno all’aria. Lucia, di ragione, sua signoria illustrissima penserà a metterla in salvo: quell’altro poveraccio mal capitato è fuor del tiro, e ha già avuto la sua: ecco che il cencio son diventato io. La sarebbe barbara, dopo tant’incomodi, dopo tante agitazioni, e senza acquistarne merito, che ne dovessi portar la pena io. Cosa farà ora sua signoria illustrissima per difendermi, dopo avermi messo in ballo? Mi può star mallevadore lui che quel dannato non mi faccia un’azione peggio della prima? E poi, ha tanti affari per la testa! mette mano a tante cose! Come si può badare a tutto? Lascian poi alle volte le cose più imbrogliate di prima. Quelli che fanno il bene, lo fanno all’ingrosso: quand’hanno provata quella soddisfazione, n’hanno abbastanza, e non si voglion seccare a star dietro a tutte le conseguenze; ma coloro che hanno quel gusto di fare il male, ci mettono più diligenza, ci stanno dietro fino alla fine, non prendon mai requie, perché hanno quel canchero che li rode. Devo andar io a dire che son venuto qui per comando espresso di sua signoria illustrissima, e non di mia volontà? Parrebbe che volessi tenere dalla parte dell’iniquità. Oh santo cielo! Dalla parte dell’iniquità io! Per gli spassi che la mi dà! Basta; il meglio sarà raccontare a Perpetua la cosa com’è; e lascia poi fare a Perpetua a mandarla in giro. Purché a monsignore non venga il grillo di far qualche pubblicità, qualche scena inutile, e mettermici dentro anche me. A buon conto, appena siamo arrivati, se è uscito di chiesa, vado a riverirlo in fretta in fretta; se no, lascio le mie scuse, e me ne vo diritto diritto a casa mia. Lucia è bene appoggiata; di me non ce n’è più bisogno; e dopo tant’incomodi, posso pretendere anch’io d’andarmi a riposare. E poi… che non venisse anche curiosità a monsignore di saper tutta la storia, e mi toccasse a render conto dell’affare del matrimonio! Non ci mancherebbe altro. E se viene in visita anche alla mia parrocchia!… Oh! sarà quel che sarà; non vo’ confondermi prima del tempo: n’ho abbastanza de’ guai. Per ora vo a chiudermi in casa. Fin che monsignore si trova da queste parti, don Rodrigo non avrà faccia di far pazzie. E poi… E poi? Ah! vedo che i miei ultimi anni ho da passarli male!”

La comitiva arrivò che le funzioni di chiesa non erano ancor terminate; passò per mezzo alla folla medesima non meno commossa della prima volta; e poi si divise. I due a cavallo voltarono sur una piazzetta di fianco, in fondo a cui era la casa del parroco; la lettiga andò avanti verso quella della buona donna.

Don Abbondio fece quello che aveva pensato: appena smontato, fece i più sviscerati complimenti all’innominato, e lo pregò di volerlo scusar con monsignore; ché lui doveva tornare alla parrocchia addirittura, per affari urgenti. Andò a cercare quel che chiamava il suo cavallo, cioè il bastone che aveva lasciato in un cantuccio del salotto, e s’incamminò. L’innominato stette a aspettare che il cardinale tornasse di chiesa.

La buona donna, fatta seder Lucia nel miglior luogo della sua cucina, s’affaccendava a preparar qualcosa da ristorarla, ricusando, con una certa rustichezza cordiale, i ringraziamenti e le scuse che questa rinnovava ogni tanto.

Presto presto, rimettendo stipa sotto un calderotto, dove notava un buon cappone, fece alzare il bollore al brodo, e riempitane una scodella già guarnita di fette di pane, poté finalmente presentarla a Lucia. E nel vedere la poverina a riaversi a ogni cucchiaiata, si congratulava ad alta voce con se stessa che la cosa fosse accaduta in un giorno in cui, com’essa diceva, non c’era il gatto nel fuoco. – Tutti s’ingegnano oggi a far qualcosina, – aggiungeva: – meno que’ poveri poveri che stentano a aver pane di vecce e polenta di saggina; però oggi da un signore così caritatevole sperano di buscar tutti qualcosa. Noi, grazie al cielo, non siamo in questo caso: tra il mestiere di mio marito, e qualcosa che abbiamo al sole, si campa. Sicché mangiate senza pensieri intanto; ché presto il cappone sarà a tiro, e potrete ristorarvi un po’ meglio –. Così detto, ritornò ad accudire al desinare, e ad apparecchiare.

Lucia, tornatele alquanto le forze, e acquietandosele sempre più l’animo, andava intanto assettandosi, per un’abitudine, per un istinto di pulizia e di verecondia: rimetteva e fermava le trecce allentate e arruffate, raccomodava il fazzoletto sul seno, e intorno al collo. In far questo, le sue dita s’intralciarono nella corona che ci aveva messa, la notte avanti; lo sguardo vi corse; si fece nella mente un tumulto istantaneo; la memoria del voto, oppressa fino allora e soffogata da tante sensazioni presenti, vi si suscitò d’improvviso, e vi comparve chiara e distinta. Allora tutte le potenze del suo animo, appena riavute, furon sopraffatte di nuovo, a un tratto: e se quell’animo non fosse stato così preparato da una vita d’innocenza, di rassegnazione e di fiducia, la costernazione che provò in quel momento, sarebbe stata disperazione. Dopo un ribollimento di que’ pensieri che non vengono con parole, le prime che si formarono nella sua mente furono: “oh povera me, cos’ho fatto!”

Ma non appena l’ebbe pensate, ne risentì come uno spavento. Le tornarono in mente tutte le circostanze del voto, l’angoscia intollerabile, il non avere una speranza di soccorso, il fervore della preghiera, la pienezza del sentimento con cui la promessa era stata fatta. E dopo avere ottenuta la grazia, pentirsi della promessa, le parve un’ingratitudine sacrilega, una perfidia verso Dio e la Madonna; le parve che una tale infedeltà le attirerebbe nuove e più terribili sventure, in mezzo alle quali non potrebbe più sperare neppur nella preghiera; e s’affrettò di rinnegare quel pentimento momentaneo. Si levò con divozione la corona dal collo, e tenendola nella mano tremante, confermò, rinnovò il voto, chiedendo nello stesso tempo, con una supplicazione accorata, che le fosse concessa la forza d’adempirlo, che le fossero risparmiati i pensieri e l’occasioni le quali avrebbero potuto, se non ismovere il suo animo, agitarlo troppo. La lontananza di Renzo, senza nessuna probabilità di ritorno, quella lontananza che fin allora le era stata così amara, le parve ora una disposizione della Provvidenza, che avesse fatti andare insieme i due avvenimenti per un fine solo; e si studiava di trovar nell’uno la ragione d’esser contenta dell’altro. E dietro a quel pensiero, s’andava figurando ugualmente che quella Provvidenza medesima, per compir l’opera, saprebbe trovar la maniera di far che Renzo si rassegnasse anche lui, non pensasse più… Ma una tale idea, appena trovata, mise sottosopra la mente ch’era andata a cercarla. La povera Lucia, sentendo che il cuore era lì lì per pentirsi, ritornò alla preghiera, alle conferme, al combattimento, dal quale s’alzò, se ci si passa quest’espressione, come il vincitore stanco e ferito, di sopra il nemico abbattuto: non dico ucciso.

Tutt’a un tratto, si sente uno scalpiccìo, e un chiasso di voci allegre. Era la famigliola che tornava di chiesa. Due bambinette e un fanciullo entran saltando; si fermano un momento a dare un’occhiata curiosa a Lucia, poi corrono alla mamma, e le s’aggruppano intorno: chi domanda il nome dell’ospite sconosciuta, e il come e il perché; chi vuol raccontare le maraviglie vedute: la buona donna risponde a tutto e a tutti con un – zitti, zitti –. Entra poi, con un passo più quieto, ma con una premura cordiale dipinta in viso, il padrone di casa. Era, se non l’abbiamo ancor detto, il sarto del villaggio, e de’ contorni; un uomo che sapeva leggere, che aveva letto in fatti più d’una volta il Leggendario de’ Santi, il Guerrin meschino e i Reali di Francia, e passava, in quelle parti, per un uomo di talento e di scienza: lode però che rifiutava modestamente, dicendo soltanto che aveva sbagliato la vocazione; e che se fosse andato agli studi, in vece di tant’altri…! Con questo, la miglior pasta del mondo. Essendosi trovato presente quando sua moglie era stata pregata dal curato d’intraprendere quel viaggio caritatevole, non solo ci aveva data la sua approvazione, ma le avrebbe fatto coraggio, se ce ne fosse stato bisogno. E ora che la funzione, la pompa, il concorso, e soprattutto la predica del cardinale avevano, come si dice, esaltati tutti i suoi buoni sentimenti, tornava a casa con un’aspettativa, con un desiderio ansioso di sapere come la cosa fosse riuscita, e di trovare la povera innocente salvata.

– Guardate un poco, – gli disse, al suo entrare, la buona donna, accennando Lucia; la quale fece il viso rosso, s’alzò, e cominciava a balbettar qualche scusa. Ma lui, avvicinatosele, l’interruppe facendole una gran festa, e esclamando: – ben venuta, ben venuta! Siete la benedizione del cielo in questa casa. Come son contento di vedervi qui! Già ero sicuro che sareste arrivata a buon porto; perché non ho mai trovato che il Signore abbia cominciato un miracolo senza finirlo bene; ma son contento di vedervi qui. Povera giovine! Ma è però una gran cosa d’aver ricevuto un miracolo!

Né si creda che fosse lui il solo a qualificar così quell’avvenimento, perché aveva letto il Leggendario: per tutto il paese e per tutt’i contorni non se ne parlò con altri termini, fin che ce ne rimase la memoria. E, a dir la verità, con le frange che vi s’attaccarono, non gli poteva convenire altro nome.

Accostatosi poi passo passo alla moglie, che staccava il calderotto dalla catena, le disse sottovoce: – è andato bene ogni cosa?

– Benone: ti racconterò poi tutto.

– Sì, sì; con comodo.

Messo poi subito in tavola, la padrona andò a prender Lucia, ve l’accompagnò, la fece sedere; e staccata un’ala di quel cappone, gliela mise davanti; si mise a sedere anche lei e il marito, facendo tutt’e due coraggio all’ospite abbattuta e vergognosa, perché mangiasse. Il sarto cominciò, ai primi bocconi, a discorrere con grand’enfasi, in mezzo all’interruzioni de’ ragazzi, che mangiavano ritti intorno alla tavola, e che in verità avevano viste troppe cose straordinarie, per fare alla lunga la sola parte d’ascoltatori. Descriveva le cerimonie solenni, poi saltava a parlare della conversione miracolosa. Ma ciò che gli aveva fatto più impressione, e su cui tornava più spesso, era la predica del cardinale.

– A vederlo lì davanti all’altare, – diceva, – un signore di quella sorte, come un curato…

– E quella cosa d’oro che aveva in testa… – diceva una bambinetta.

– Sta’ zitta. A pensare, dico, che un signore di quella sorte, e un uomo tanto sapiente, che, a quel che dicono, ha letto tutti i libri che ci sono, cosa a cui non è mai arrivato nessun altro, né anche in Milano; a pensare che sappia adattarsi a dir quelle cose in maniera che tutti intendano…

– Ho inteso anch’io, – disse l’altra chiacchierina.

– Sta’ zitta! cosa vuoi avere inteso, tu?

– Ho inteso che spiegava il Vangelo in vece del signor curato.

– Sta’ zitta. Non dico chi sa qualche cosa; ché allora uno è obbligato a intendere; ma anche i più duri di testa, i più ignoranti, andavan dietro al filo del discorso. Andate ora a domandar loro se saprebbero ripeter le parole che diceva: sì; non ne ripescherebbero una; ma il sentimento lo hanno qui. E senza mai nominare quel signore, come si capiva che voleva parlar di lui! E poi, per capire, sarebbe bastato osservare quando aveva le lacrime agli occhi. E allora tutta la gente a piangere…

– È proprio vero, – scappò fuori il fanciullo: – ma perché piangevan tutti a quel modo, come bambini?

– Sta’ zitto. E sì che c’è de’ cuori duri in questo paese. E ha fatto proprio vedere che, benché ci sia la carestia, bisogna ringraziare il Signore, ed esser contenti: far quel che si può, industriarsi, aiutarsi, e poi esser contenti. Perché la disgrazia non è il patire, e l’esser poveri; la disgrazia è il far del male. E non son belle parole; perché si sa che anche lui vive da pover’uomo, e si leva il pane di bocca per darlo agli affamati; quando potrebbe far vita scelta, meglio di chi si sia. Ah! allora un uomo dà soddisfazione a sentirlo discorrere; non come tant’altri, fate quello che dico, e non fate quel che fo. E poi ha fatto proprio vedere che anche coloro che non son signori, se hanno più del necessario, sono obbligati di farne parte a chi patisce.

Qui interruppe il discorso da sé, come sorpreso da un pensiero. Stette un momento; poi mise insieme un piatto delle vivande ch’eran sulla tavola, e aggiuntovi un pane, mise il piatto in un tovagliolo, e preso questo per le quattro cocche, disse alla sua bambinetta maggiore: – piglia qui –. Le diede nell’altra mano un fiaschetto di vino, e soggiunse: – va’ qui da Maria vedova; lasciale questa roba, e dille che è per stare un po’ allegra co’ suoi bambini. Ma con buona maniera, ve’; che non paia che tu le faccia l’elemosina. E non dir niente, se incontri qualcheduno; e guarda di non rompere.

Lucia fece gli occhi rossi, e sentì in cuore una tenerezza ricreatrice; come già da’ discorsi di prima aveva ricevuto un sollievo che un discorso fatto apposta non le avrebbe potuto dare. L’animo attirato da quelle descrizioni, da quelle fantasie di pompa, da quelle commozioni di pietà e di maraviglia, preso dall’entusiasmo medesimo del narratore, si staccava da’ pensieri dolorosi di sé; e anche ritornandoci sopra, si trovava più forte contro di essi. Il pensiero stesso del gran sacrifizio, non già che avesse perduto il suo amaro, ma insiem con esso aveva un non so che d’una gioia austera e solenne.

Poco dopo, entrò il curato del paese, e disse d’esser mandato dal cardinale a informarsi di Lucia, ad avvertirla che monsignore voleva vederla in quel giorno, e a ringraziare in suo nome il sarto e la moglie. E questi e quella, commossi e confusi, non trovavan parole per corrispondere a tali dimostrazioni d’un tal personaggio.

– E vostra madre non è ancora arrivata? – disse il curato a Lucia.

– Mia madre! – esclamò questa. Dicendole poi il curato, che l’aveva mandata a prendere, d’ordine dell’arcivescovo, si mise il grembiule agli occhi, e diede in un dirotto pianto, che durò un pezzo dopo che fu andato via il curato. Quando poi gli affetti tumultuosi che le si erano suscitati a quell’annunzio, cominciarono a dar luogo a pensieri più posati, la poverina si ricordò che quella consolazione allora così vicina, di riveder la madre, una consolazione così inaspettata poche ore prima, era stata da lei espressamente implorata in quell’ore terribili, e messa quasi come una condizione al voto. Fatemi tornar salva con mia madre, aveva detto; e queste parole le ricomparvero ora distinte nella memoria. Si confermò più che mai nel proposito di mantener la promessa, e si fece di nuovo, e più amaramente, scrupolo di quel povera me! che le era scappato detto tra sé, nel primo momento.

Agnese infatti, quando si parlava di lei, era già poco lontana. È facile pensare come la povera donna fosse rimasta, a quell’invito così inaspettato, e a quella notizia, necessariamente tronca e confusa, d’un pericolo, si poteva dir, cessato, ma spaventoso; d’un caso terribile, che il messo non sapeva né circostanziare né spiegare; e lei non aveva a che attaccarsi per ispiegarlo da sé. Dopo essersi cacciate le mani ne’ capelli, dopo aver gridato più volte: – ah Signore! ah Madonna! –, dopo aver fatte al messo varie domande, alle quali questo non sapeva che rispondere, era entrata in fretta e in furia nel baroccio, continuando per la strada a esclamare e interrogare, senza profitto. Ma, a un certo punto, aveva incontrato don Abbondio che veniva adagio adagio, mettendo avanti, a ogni passo, il suo bastone. Dopo un – oh! – di tutt’e due le parti, lui s’era fermato, lei aveva fatto fermare, ed era smontata; e s’eran tirati in disparte in un castagneto che costeggiava la strada. Don Abbondio l’aveva ragguagliata di ciò che aveva potuto sapere e dovuto vedere. La cosa non era chiara; ma almeno Agnese fu assicurata che Lucia era affatto in salvo; e respirò.

Dopo, don Abbondio era voluto entrare in un altro discorso, e darle una lunga istruzione sulla maniera di regolarsi con l’arcivescovo, se questo, com’era probabile, avesse desiderato di parlar con lei e con la figliuola; e soprattutto che non conveniva far parola del matrimonio… Ma Agnese, accorgendosi che il brav’uomo non parlava che per il suo proprio interesse, l’aveva piantato, senza promettergli, anzi senza risolver nulla; ché aveva tutt’altro da pensare. E s’era rimessa in istrada.

Finalmente il baroccio arriva, e si ferma alla casa del sarto. Lucia s’alza precipitosamente; Agnese scende, e dentro di corsa: sono nelle braccia l’una dell’altra. La moglie del sarto, ch’era la sola che si trovava lì presente, fa coraggio a tutt’e due, le acquieta, si rallegra con loro, e poi, sempre discreta, le lascia sole, dicendo che andava a preparare un letto per loro; che aveva il modo, senza incomodarsi; ma che, in ogni caso, tanto lei, come suo marito, avrebbero piuttosto voluto dormire in terra, che lasciarle andare a cercare un ricovero altrove.

Passato quel primo sfogo d’abbracciamenti e di singhiozzi, Agnese volle sapere i casi di Lucia, e questa si mise affannosamente a raccontarglieli. Ma, come il lettore sa, era una storia che nessuno la conosceva tutta; e per Lucia stessa c’eran delle parti oscure, inesplicabili affatto. E principalmente quella fatale combinazione d’essersi la terribile carrozza trovata lì sulla strada, per l’appunto quando Lucia vi passava per un caso straordinario: su di che la madre e la figlia facevan cento congetture, senza mai dar nel segno, anzi senza neppure andarci vicino.

In quanto all’autor principale della trama, tanto l’una che l’altra non potevano fare a meno di non pensare che fosse don Rodrigo.

– Ah anima nera! ah tizzone d’inferno! – esclamava Agnese: – ma verrà la sua ora anche per lui. Domeneddio lo pagherà secondo il merito; e allora proverà anche lui…

– No, no, mamma; no! – interruppe Lucia: – non gli augurate di patire, non l’augurate a nessuno! Se sapeste cosa sia patire! Se aveste provato! No, no! preghiamo piuttosto Dio e la Madonna per lui: che Dio gli tocchi il cuore, come ha fatto a quest’altro povero signore, ch’era peggio di lui; e ora è un santo.

Il ribrezzo che Lucia provava nel tornare sopra memorie così recenti e così crudeli, la fece più d’una volta restare a mezzo; più d’una volta disse che non le bastava l’animo di continuare, e dopo molte lacrime, riprese la parola a stento. Ma un sentimento diverso la tenne sospesa, a un certo punto del racconto: quando fu al voto. Il timore che la madre le desse dell’imprudente e della precipitosa; e che, come aveva fatto nell’affare del matrimonio, mettesse in campo qualche sua regola larga di coscienza, e volesse fargliela trovar giusta per forza; o che, povera donna, dicesse la cosa a qualcheduno in confidenza, se non altro per aver lume e consiglio, e la facesse così divenir pubblica, cosa che Lucia, solamente a pensarci, si sentiva venire il viso rosso; anche una certa vergogna della madre stessa, una ripugnanza inesplicabile a entrare in quella materia; tutte queste cose insieme fecero che nascose quella circostanza importante, proponendosi di farne prima la confidenza al padre Cristoforo. Ma come rimase allorché, domandando di lui, si sentì rispondere che non c’era più, ch’era stato mandato in un paese lontano lontano, in un paese che aveva un certo nome!

– E Renzo? – disse Agnese.

– È in salvo, n’è vero? – disse ansiosamente Lucia.

– Questo è sicuro, perché tutti lo dicono; si tien per certo che si sia ricoverato sul bergamasco; ma il luogo proprio nessuno lo sa dire: e lui finora non ha mai fatto saper nulla. Che non abbia ancora trovata la maniera.

– Ah, se è in salvo, sia ringraziato il Signore! – disse Lucia; e cercava di cambiar discorso; quando il discorso fu interrotto da una novità inaspettata: la comparsa del cardinale arcivescovo.

Questo, tornato di chiesa, dove l’abbiam lasciato, sentito dall’innominato che Lucia era arrivata, sana e salva, era andato a tavola con lui, facendoselo sedere a destra, in mezzo a una corona di preti, che non potevano saziarsi di dare occhiate a quell’aspetto così ammansato senza debolezza, così umiliato senza abbassamento, e di paragonarlo con l’idea che da lungo tempo s’eran fatta del personaggio.

Finito di desinare, loro due s’eran ritirati di nuovo insieme. Dopo un colloquio che durò molto più del primo, l’innominato era partito per il suo castello, su quella stessa mula della mattina; e il cardinale, fatto chiamare il curato, gli aveva detto che desiderava d’esser condotto alla casa dov’era ricoverata Lucia.

– Oh! monsignore, – aveva risposto il curato, – non s’incomodi: manderò io subito ad avvertire che venga qui la giovine, la madre, se è arrivata, anche gli ospiti, se monsignore li vuole, tutti quelli che desidera vossignoria illustrissima.

– Desidero d’andar io a trovarli, – aveva replicato Federigo.

– Vossignoria illustrissima non deve incomodarsi: manderò io subito a chiamarli: è cosa d’un momento, – aveva insistito il curato guastamestieri (buon uomo del resto), non intendendo che il cardinale voleva con quella visita rendere onore alla sventura, all’innocenza, all’ospitalità e al suo proprio ministero in un tempo. Ma, avendo il superiore espresso di nuovo il medesimo desiderio, l’inferiore s’inchinò e si mosse.

Quando i due personaggi furon veduti spuntar nella strada, tutta la gente che c’era andò verso di loro; e in pochi momenti n’accorse da ogni parte, camminando loro ai fianchi chi poteva, e gli altri dietro, alla rinfusa. Il curato badava a dire: – via, indietro, ritiratevi; ma! ma! – Federigo gli diceva: – lasciateli fare, – e andava avanti, ora alzando la mano a benedir la gente, ora abbassandola ad accarezzare i ragazzi che gli venivan tra’ piedi. Così arrivarono alla casa, e c’entrarono: la folla rimase ammontata al di fuori. Ma nella folla si trovava anche il sarto, il quale era andato dietro come gli altri, con gli occhi fissi e con la bocca aperta, non sapendo dove si riuscirebbe. Quando vide quel dove inaspettato, si fece far largo, pensate con che strepito, gridando e rigridando: – lasciate passare chi ha da passare –; e entrò.

Agnese e Lucia sentirono un ronzìo crescente nella strada; mentre pensavano cosa potesse essere, videro l’uscio spalancarsi, e comparire il porporato col parroco.

– È quella? – domandò il primo al secondo; e, a un cenno affermativo, andò verso Lucia, ch’era rimasta lì con la madre, tutt’e due immobili e mute dalla sorpresa e dalla vergogna. Ma il tono di quella voce, l’aspetto, il contegno, e soprattutto le parole di Federigo l’ebbero subito rianimate. – Povera giovine, – cominciò: – Dio ha permesso che foste messa a una gran prova; ma v’ha anche fatto vedere che non aveva levato l’occhio da voi, che non v’aveva dimenticata. V’ha rimessa in salvo; e s’è servito di voi per una grand’opera, per fare una gran misericordia a uno, e per sollevar molti nello stesso tempo.

Qui comparve nella stanza la padrona, la quale, al rumore, s’era affacciata anch’essa alla finestra, e avendo veduto chi le entrava in casa, aveva sceso le scale, di corsa, dopo essersi raccomodata alla meglio; e quasi nello stesso tempo, entrò il sarto da un altr’uscio. Vedendo avviato il discorso, andarono a riunirsi in un canto, dove rimasero con gran rispetto. Il cardinale, salutatili cortesemente, continuò a parlar con le donne, mescolando ai conforti qualche domanda, per veder se nelle risposte potesse trovar qualche congiuntura di far del bene a chi aveva tanto patito.

– Bisognerebbe che tutti i preti fossero come vossignoria, che tenessero un po’ dalla parte de’ poveri, e non aiutassero a metterli in imbroglio, per cavarsene loro, – disse Agnese, animata dal contegno così famigliare e amorevole di Federigo, e stizzita dal pensare che il signor don Abbondio, dopo aver sempre sacrificati gli altri, pretendesse poi anche d’impedir loro un piccolo sfogo, un lamento con chi era al di sopra di lui, quando, per un caso raro, n’era venuta l’occasione.

– Dite pure tutto quel che pensate, – disse il cardinale: – parlate liberamente.

– Voglio dire che, se il nostro signor curato avesse fatto il suo dovere, la cosa non sarebbe andata così.

Ma facendole il cardinale nuove istanze perché si spiegasse meglio, quella cominciò a trovarsi impicciata a dover raccontare una storia nella quale aveva anch’essa una parte che non si curava di far sapere, specialmente a un tal personaggio. Trovò però il verso d’accomodarla con un piccolo stralcio: raccontò del matrimonio concertato, del rifiuto di don Abbondio, non lasciò fuori il pretesto de’ superiori che lui aveva messo in campo (ah, Agnese!); e saltò all’attentato di don Rodrigo, e come, essendo stati avvertiti, avevano potuto scappare. – Ma sì, – soggiunse e concluse: – scappare per inciamparci di nuovo. Se in vece il signor curato ci avesse detto sinceramente la cosa, e avesse subito maritati i miei poveri giovani, noi ce n’andavamo via subito, tutti insieme, di nascosto, lontano, in luogo che né anche l’aria non l’avrebbe saputo. Così s’è perduto tempo; ed è nato quel che è nato.

– Il signor curato mi renderà conto di questo fatto, – disse il cardinale.

– No, signore, no, signore, – disse subito Agnese: – non ho parlato per questo: non lo gridi, perché già quel che è stato è stato; e poi non serve a nulla: è un uomo fatto così: tornando il caso, farebbe lo stesso.

Ma Lucia, non contenta di quella maniera di raccontar la storia, soggiunse: – anche noi abbiamo fatto del male: si vede che non era la volontà del Signore che la cosa dovesse riuscire.

– Che male avete potuto far voi, povera giovine? – disse Federigo.

Lucia, malgrado gli occhiacci che la madre cercava di farle alla sfuggita, raccontò la storia del tentativo fatto in casa di don Abbondio; e concluse dicendo: – abbiam fatto male; e Dio ci ha gastigati.

– Prendete dalla sua mano i patimenti che avete sofferti, e state di buon animo, – disse Federigo: – perché, chi avrà ragione di rallegrarsi e di sperare, se non chi ha patito, e pensa ad accusar se medesimo?

Domandò allora dove fosse il promesso sposo, e sentendo da Agnese (Lucia stava zitta, con la testa e gli occhi bassi) ch’era scappato dal suo paese, ne provò e ne mostrò maraviglia e dispiacere; e volle sapere il perché.

Agnese raccontò alla meglio tutto quel poco che sapeva della storia di Renzo.

– Ho sentito parlare di questo giovine, – disse il cardinale: – ma come mai uno che si trovò involto in affari di quella sorte, poteva essere in trattato di matrimonio con una ragazza così?

– Era un giovine dabbene, – disse Lucia, facendo il viso rosso, ma con voce sicura.

– Era un giovine quieto, fin troppo, – soggiunse Agnese: – e questo lo può domandare a chi si sia, anche al signor curato. Chi sa che imbroglio avranno fatto laggiù, che cabale? I poveri, ci vuol poco a farli comparir birboni.

– È vero pur troppo, – disse il cardinale: – m’informerò di lui senza dubbio –: e fattosi dire nome e cognome del giovine, ne prese l’appunto sur un libriccin di memorie. Aggiunse poi che contava di portarsi al loro paese tra pochi giorni, che allora Lucia potrebbe venir là senza timore, e che intanto penserebbe lui a provvederla d’un luogo dove potesse esser al sicuro, fin che ogni cosa fosse accomodata per il meglio.

Si voltò quindi ai padroni di casa, che vennero subito avanti. Rinnovò i ringraziamenti che aveva fatti fare dal curato, e domandò se sarebbero stati contenti di ricoverare, per que’ pochi giorni, le ospiti che Dio aveva loro mandate.

– Oh! sì signore, – rispose la donna, con un tono di voce e con un viso ch’esprimeva molto più di quell’asciutta risposta, strozzata dalla vergogna. Ma il marito, messo in orgasmo dalla presenza d’un tale interrogatore, dal desiderio di farsi onore in un’occasione di tanta importanza, studiava ansiosamente qualche bella risposta. Raggrinzò la fronte, torse gli occhi in traverso, strinse le labbra, tese a tutta forza l’arco dell’intelletto, cercò, frugò, sentì di dentro un cozzo d’idee monche e di mezze parole: ma il momento stringeva; il cardinale accennava già d’avere interpretato il silenzio: il pover’uomo aprì la bocca, e disse: – si figuri! – Altro non gli volle venire. Cosa, di cui non solo rimase avvilito sul momento; ma sempre poi quella rimembranza importuna gli guastava la compiacenza del grand’onore ricevuto. E quante volte, tornandoci sopra, e rimettendosi col pensiero in quella circostanza, gli venivano in mente, quasi per dispetto, parole che tutte sarebbero state meglio di quell’insulso si figuri! Ma, come dice un antico proverbio, del senno di poi ne son piene le fosse.

Il cardinale partì, dicendo: – la benedizione del Signore sia sopra questa casa.

Domandò poi la sera al curato come si sarebbe potuto in modo convenevole ricompensare quell’uomo, che non doveva esser ricco, dell’ospitalità costosa, specialmente in que’ tempi. Il curato rispose che, per verità, né i guadagni della professione, né le rendite di certi campicelli, che il buon sarto aveva del suo, non sarebbero bastate, in quell’annata, a metterlo in istato d’esser liberale con gli altri; ma che, avendo fatto degli avanzi negli anni addietro, si trovava de’ più agiati del contorno, e poteva far qualche spesa di più, senza dissesto, come certo faceva questa volentieri; e che, del rimanente, non ci sarebbe stato verso di fargli accettare nessuna ricompensa.

– Avrà probabilmente, – disse il cardinale, – crediti con gente che non può pagare.

– Pensi, monsignore illustrissimo: questa povera gente paga con quel che le avanza della raccolta: l’anno scorso, non avanzò nulla; in questo, tutti rimangono indietro del necessario.

– Ebbene, – disse Federigo: – prendo io sopra di me tutti que’ debiti; e voi mi farete il piacere d’aver da lui la nota delle partite, e di saldarle.

– Sarà una somma ragionevole.

– Tanto meglio: e avrete pur troppo di quelli ancor più bisognosi, che non hanno debiti perché non trovan credenza.

– Eh, pur troppo! Si fa quel che si può; ma come arrivare a tutto, in tempi di questa sorte?

– Fate che lui li vesta a mio conto, e pagatelo bene. Veramente, in quest’anno, mi par rubato tutto ciò che non va in pane; ma questo è un caso particolare.

Non vogliam però chiudere la storia di quella giornata, senza raccontar brevemente come la terminasse l’innominato.

Questa volta, la nuova della sua conversione l’aveva preceduto nella valle; vi s’era subito sparsa, e aveva messo per tutto uno sbalordimento, un’ansietà, un cruccio, un susurro. Ai primi bravi, o servitori (era tutt’uno) che vide, accennò che lo seguissero: e così di mano in mano. Tutti venivan dietro, con una sospensione nuova, e con la suggezione solita; finché, con un seguito sempre crescente, arrivò al castello. Accennò a quelli che si trovavan sulla porta, che gli venissero dietro con gli altri; entrò nel primo cortile, andò verso il mezzo, e lì, essendo ancora a cavallo, mise un suo grido tonante: era il segno usato, al quale accorrevano tutti que’ suoi che l’avessero sentito. In un momento, quelli ch’erano sparsi per il castello, vennero dietro alla voce, e s’univano ai già radunati, guardando tutti il padrone.

– Andate ad aspettarmi nella sala grande, – disse loro; e dall’alto della sua cavalcatura, gli stava a veder partire. Ne scese poi, la menò lui stesso alla stalla, e andò dov’era aspettato. Al suo apparire, cessò subito un gran bisbiglìo che c’era; tutti si ristrinsero da una parte, lasciando voto per lui un grande spazio della sala: potevano essere una trentina.

L’innominato alzò la mano, come per mantener quel silenzio improvviso; alzò la testa, che passava tutte quelle della brigata, e disse: – ascoltate tutti, e nessuno parli, se non è interrogato. Figliuoli! la strada per la quale siamo andati finora, conduce nel fondo dell’inferno. Non è un rimprovero ch’io voglia farvi, io che sono avanti a tutti, il peggiore di tutti; ma sentite ciò che v’ho da dire. Dio misericordioso m’ha chiamato a mutar vita; e io la muterò, l’ho già mutata: così faccia con tutti voi. Sappiate dunque, e tenete per fermo che son risoluto di prima morire che far più nulla contro la sua santa legge. Levo a ognun di voi gli ordini scellerati che avete da me; voi m’intendete; anzi vi comando di non far nulla di ciò che v’era comandato. E tenete per fermo ugualmente, che nessuno, da qui avanti, potrà far del male con la mia protezione, al mio servizio. Chi vuol restare a questi patti, sarà per me come un figliuolo: e mi troverei contento alla fine di quel giorno, in cui non avessi mangiato per satollar l’ultimo di voi, con l’ultimo pane che mi rimanesse in casa. Chi non vuole, gli sarà dato quello che gli è dovuto di salario, e un regalo di più: potrà andarsene; ma non metta più piede qui: quando non fosse per mutar vita; che per questo sarà sempre ricevuto a braccia aperte. Pensateci questa notte: domattina vi chiamerò, a uno a uno, a darmi la risposta; e allora vi darò nuovi ordini. Per ora, ritiratevi, ognuno al suo posto. E Dio che ha usato con me tanta misericordia, vi mandi il buon pensiero.

Qui finì, e tutto rimase in silenzio. Per quanto vari e tumultuosi fossero i pensieri che ribollivano in que’ cervellacci, non ne apparve di fuori nessun segno. Erano avvezzi a prender la voce del loro signore come la manifestazione d’una volontà con la quale non c’era da ripetere: e quella voce, annunziando che la volontà era mutata, non dava punto indizio che fosse indebolita. A nessuno di loro passò neppur per la mente che, per esser lui convertito, si potesse prendergli il sopravvento, rispondergli come a un altr’uomo. Vedevano in lui un santo, ma un di que’ santi che si dipingono con la testa alta, e con la spada in pugno. Oltre il timore, avevano anche per lui (principalmente quelli ch’eran nati sul suo, ed erano una gran parte) un’affezione come d’uomini ligi; avevan poi tutti una benevolenza d’ammirazione; e alla sua presenza sentivano una specie di quella, dirò pur così, verecondia, che anche gli animi più zotici e più petulanti provano davanti a una superiorità che hanno già riconosciuta. Le cose poi che allora avevan sentite da quella bocca, erano bensì odiose a’ loro orecchi, ma non false né affatto estranee ai loro intelletti: se mille volte se n’eran fatti beffe, non era già perché non le credessero, ma per prevenir con le beffe la paura che gliene sarebbe venuta, a pensarci sul serio. E ora, a veder l’effetto di quella paura in un animo come quello del loro padrone, chi più, chi meno, non ce ne fu uno che non gli se n’attaccasse, almeno per qualche tempo. S’aggiunga a tutto ciò, che quelli tra loro che, trovandosi la mattina fuor della valle, avevan risaputa per i primi la gran nuova, avevano insieme veduto, e avevano anche riferito la gioia, la baldanza della popolazione, l’amore e la venerazione per l’innominato, ch’erano entrati in luogo dell’antico odio e dell’antico terrore. Di maniera che, nell’uomo che avevan sempre riguardato, per dir così, di basso in alto, anche quando loro medesimi erano in gran parte la sua forza, vedevano ora la maraviglia, l’idolo d’una moltitudine; lo vedevano al di sopra degli altri, ben diversamente di prima, ma non meno; sempre fuori della schiera comune, sempre capo.

Stavano adunque sbalorditi, incerti l’uno dell’altro, e ognun di sé. Chi si rodeva, chi faceva disegni del dove sarebbe andato a cercar ricovero e impiego; chi s’esaminava se avrebbe potuto adattarsi a diventar galantuomo; chi anche, tocco da quelle parole, se ne sentiva una certa inclinazione; chi, senza risolver nulla, proponeva di prometter tutto a buon conto, di rimanere intanto a mangiare quel pane offerto così di buon cuore, e allora così scarso, e d’acquistar tempo: nessuno fiatò. E quando l’innominato, alla fine delle sue parole, alzò di nuovo quella mano imperiosa per accennar che se n’andassero, quatti quatti, come un branco di pecore, tutti insieme se la batterono. Uscì anche lui, dietro a loro, e, piantatosi prima nel mezzo del cortile, stette a vedere al barlume come si sbrancassero, e ognuno s’avviasse al suo posto. Salito poi a prendere una sua lanterna, girò di nuovo i cortili, i corridoi, le sale, visitò tutte l’entrature, e, quando vide ch’era tutto quieto, andò finalmente a dormire. Sì, a dormire; perché aveva sonno.

Affari intralciati, e insieme urgenti, per quanto ne fosse sempre andato in cerca, non se n’era mai trovati addosso tanti, in nessuna congiuntura, come allora; eppure aveva sonno. I rimorsi che gliel avevan levato la notte avanti, non che essere acquietati, mandavano anzi grida più alte, più severe, più assolute; eppure aveva sonno. L’ordine, la specie di governo stabilito là dentro da lui in tant’anni, con tante cure, con un tanto singolare accoppiamento d’audacia e di perseveranza, ora l’aveva lui medesimo messo in forse, con poche parole; la dipendenza illimitata di que’ suoi, quel loro esser disposti a tutto, quella fedeltà da masnadieri, sulla quale era avvezzo da tanto tempo a riposare, l’aveva ora smossa lui medesimo; i suoi mezzi, gli aveva fatti diventare un monte d’imbrogli, s’era messa la confusione e l’incertezza in casa; eppure aveva sonno.

Andò dunque in camera, s’accostò a quel letto in cui la notte avanti aveva trovate tante spine; e vi s’inginocchiò accanto, con l’intenzione di pregare. Trovò in fatti in un cantuccio riposto e profondo della mente, le preghiere ch’era stato ammaestrato a recitar da bambino; cominciò a recitarle; e quelle parole, rimaste lì tanto tempo ravvolte insieme, venivano l’una dopo l’altra come sgomitolandosi. Provava in questo un misto di sentimenti indefinibile; una certa dolcezza in quel ritorno materiale all’abitudini dell’innocenza; un inasprimento di dolore al pensiero dell’abisso che aveva messo tra quel tempo e questo; un ardore d’arrivare, con opere di espiazione, a una coscienza nuova, a uno stato il più vicino all’innocenza, a cui non poteva tornare; una riconoscenza, una fiducia in quella misericordia che lo poteva condurre a quello stato, e che gli aveva già dati tanti segni di volerlo. Rizzatosi poi, andò a letto, e s’addormentò immediatamente.

Così terminò quella giornata, tanto celebre ancora quando scriveva il nostro anonimo; e ora, se non era lui, non se ne saprebbe nulla, almeno de’ particolari; giacché il Ripamonti e il Rivola, citati di sopra, non dicono se non che quel sì segnalato tiranno, dopo un abboccamento con Federigo, mutò mirabilmente vita, e per sempre. E quanti son quelli che hanno letto i libri di que’ due? Meno ancora di quelli che leggeranno il nostro. E chi sa se, nella valle stessa, chi avesse voglia di cercarla, e l’abilità di trovarla, sarà rimasta qualche stracca e confusa tradizione del fatto? Son nate tante cose da quel tempo in poi!

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