ANIMA E DANZA. Dialogo tra Socrate, Fedro ed Erissimaco (P. 1)

Dedica del traduttore

Per Ada Negri.

Consentite, Amica mia, che io dedichi al dono prezioso della Vostra amicizia la traduzione italiana di questo Dialogo, in cui sembra rivivere attraverso i secoli (per virtù di un grande Poeta, nostro contemporaneo) il prodigio del Simposio platonico.
In una pagina del Protagora, Platone beffeggia quei poveri di spirito che, terminato il syndeipnon e iniziandosi il sympotos, a corto di argomenti filosofici, ricorrono ai servigi mercenari di una citarista o d’una danzatrice, perché diano la cadenza al ritmo delle loro libagioni. Ma, certo, egli non confonderebbe con quei poveri di spirito questi personaggi dai nomi suoi redivivi: Socrate, Erissimaco, Fedro. Sazi di banchettare, una invincibile nausea li prende. E hanno fame di cibo spirituale; sitiscono di nettare di pensiero. S’abbandonano anche loro, a uno sciame di danzatrici. Ma la corifea che le comanda si definisce (e definisce anche le sue nuove corèute) col significato del proprio nome: Athikté, e cioè l’Intangibile.
Se il gesto di una mano impura, se perfino l’accenno di uno sguardo men che pudico s’attentassero di sfiorar quelle creature di sogno, si dissolverebbero di scatto, rovesciandosi in cenere grigia. Non voluttà ai sensi. Ma delizia dello spirito. Ma stimolo e insieme, nell’atto del danzare, oggetto del pensiero. Il quale, messo in moto per entro i personaggi del Dialogo dalla fantasia di un Poeta, nel linguaggio non dei filosofi ma dei poeti s’esprime. In un ritmo vario di immagini, a volte concitato, ma più spesso retto in freno dall’intelligenza lucida di Valéry. In un ritmo, che estua tra caute sottigliezze dialettiche e dismemori beatitudini di canto, a creare il mito della divina danzatrice. Athikté.

Diceva un giorno Paul Valéry a Frederic Lefèvre: “J’estime qu’une oeuvre un fois publiée, l’auteur n’a pas plus d’autorité que qui que soit d’entre ses lecteurs pour interpréter ce qu’il a écrit. L’écrit est un fait, l’écrit est un chose. Il est désormais hors du pouvoir de celui qui l’a engendré d’imposer une signification ou une voleur quelquonque à cet objet. Voilà ce qu’il faut bien comprendre, et qui généralement n’est pas compris”, (Considero che un’opera una volta pubblicata, l’autore non ha più autorità di nessuno dei suoi lettori per interpretare ciò che ha scritto. La scrittura è un dato di fatto, la scrittura è una cosa. È ormai al di là del potere di colui che l’ha generato imporre qualsiasi significato o interpretazione a questo oggetto. Questo è ciò che deve essere compreso e che generalmente non è compreso).
Ebbene. Liberamente interpretando, io ravviso in Athikté, che si stacca dall’inferno della realtà per librarsi nell’empireo della Danza a guarir dalla noia di vivere, un simbolo dell’anima umana balzante anch’esso, a guarir la noia di vivere, dall’inferno della vita nell’empireo della Poesia. La Danza è qui, insomma, metafora di Poesia; più in genere, metafora di Arte. La quale ha in sé la virtù sublime di non guarir soltanto il creatore, ma anche chiunque abbia la capacità di goderla.
Beandosi infatti nel contemplare in Athikté la metamorfosi dell’Anima nella Danza (e cioè dell’Anima che guarisce dalla vita mediante il farmaco della creazione artistica) pure il filosofo Socrate, pure lo scienziato Erissimaco, pure la “sensitiva” Fedro, partecipano di quella guarigione.
Ecco, a parer mio, il senso del mito di Athikté. In questo mito si trasfigura dunque la catarsi dell’Anima umana, quando riesce a irrompere fuori dalla vita per assurgere all’Arte. O creando essa stessa, come la danzatrice Athikté; o abbandonandosi al raptus dell’Arte creata, come Socrate, Erissimaco e Fedro.
Anche voi, Amica, interpreterete, come tutti i poeti, il senso ultimo di questo Dialogo, così. E confido che la nostra interpretazione non spiaccia a Paul Valéry: poeta, ne L’Ame et la Dance, non meno che nelle liriche pure, non meno che nel Cimitière marin, nella Jeune Parque e nei frammenti del Narcisse.
Ma quanto breve è, oltre che raro, l’attimo di quella catarsi! E quanta profondità nel simbolo valeryano di questa beatitudine fugace! Breve, per Athitké. Breve, per i convivi che la contemplano. Trascorso in un baleno quell’attimo, la divina Danzatrice ricade affranta al suolo, precipitando da altezza di vertigine, quasi per il repentino aprirsi d’un grembo: il Turbine, in cui s’era lasciata rapire a quelle altezze. È ancora, in lei, come una fievole eco di musiche astrali…. Ma ai convivi, sembra ch’ella muoia. E si sentono anch’essi morire….
Cessata la Danza, si ricade ad infrangersi contro un pavimento di pietra. Perché l’ebbrezza dell’Arte, non dura. Distruggerebbe dentro una fiammata vorace la vita. E la vita deve, invece, ricominciare. Insopprimibile, fino alla morte. E implacabile.
Voi vedete, Amica, la trasparenza dell’allegoria. Sarà accaduto tante volte anche all’anima Vostra, dopo i rapimenti nella Poesia, di ricadere affranta al suolo come Athikté, tornando ad essere dolorosa e dolorante umanità. Dio ha condannato anche i Poeti ad essere uomini, poveri uomini più di tutti gli altri: a non poter, anzi, salire alle vertiginose altezze del canto, se non sospinti dalla noia di vivere e per ricadere subito nella noia di vivere. E sempre scontano con lunghi periodi di cecità i rari attimi di sfolgorante luce goduta.
Ecco. Questo Dialogo del più grande Poeta vivente di Francia viene a Voi nella sua veste italiana. Viene al più grande Poeta d’Italia, dopo la Triade gloriosa. Nel periodo in cui, uscita dalla catarsi di Vespertina, certo nell’anima Vostra la sofferenza del risveglio si scuote tutta in un anelito di nuova catarsi.
Viene come un augurio.
Ma viene anche in segno di gratitudine per le tante volte in cui la Vostra Poesia riuscì a guarirmi, per un attimo, dalla vita.
Vi bacio le mani.

Milano, Dicembre 1932.

Vincenzo Errante

* * *

QUASI PRELUDIO…

LE MELAGRANE

Melagrane dure, spaccate
dall’urger soverchio dei chicchi,
o fronti sovrane, pei chicchi
pensieri compressi, scoppiate.

Se il raggio dei soli sofferti
v’ha infuso un travaglio d’orgoglio
così che il socchiuso rigòglio
esplose in rubini conserti,

se al picchio di un’intima forza
in gemme dal suo scarlatto
si fende, dorata, la scorza,

a quella splendente frattura
trasogno in me stesso, d’un tratto,
la ermetica vostra struttura.

* * *

L’ANIMA E LA DANZA

ERISSIMACO
O Socrate, muoio! Dammi un po’ di cibo spirituale! Mescimi il nettare del pensiero!… Accosta alle mie narici il profumo acuto dei tuoi enigmi!… Questo banchetto senza misericordia trabocca fuori da ogni appetito immaginabile, fuori da ogni credibile sete!… Quale tormento aver deliberato tante cose squisite, per non serbare che il retaggio di digerirle!… L’anima mia non è più se non un sogno della materia in lotta con se stessa!… Levatemi d’innanzi tutte quelle golosità, tutte quelle golosità stomachevoli!… Ahimè! Da poi che il sole scomparve all’orizzonte, ci siamo dati in preda a quanto di meglio v’ha sulla terra. Ma questo terribile meglio, moltiplicato pe’l suo durare nel tempo, infligge un insopportabile attualità… Mi struggo, alfine, in un desiderio pazzo di cibi magri e austeri, unicamente spirituali. Permetti che venga a sedermi accanto a te e accanto a Fedro, Socrate mio. Lascia che, vòlte deliberatamente le spalle a quelle carni in perpetuo ricrescer di polpe e a quelle anfore perennemente inesauste, io protenda alle vostre parole la coppa suprema del mio spirito.
Di che stavate parlando?

FEDRO
Di nulla, per ora. Eravamo intenti a guardare come mangiano e come bevono i nostri simili…


ERISSIMACO
Ma Socrate non aveva certo smesso di meditare su di un qualsiasi argomento… Come può egli rimaner solo quando è con se stesso, e muto anche nel più profondo dell’anima sua? Lo ho visto sorridere teneramente al proprio dèmone, là, sui margini crepuscolari del festino. Che cosa mormorano le tue labbra, Socrate diletto?


SOCRATE
Mi dicono sommesse: L’uomo che mangia è il più giusto fra gli uomini…


ERISSIMACO
Ecco, sùbito, un enigma: e l’appetito spirituale, che quell’enigma sembra fatto per stuzzicare…


SOCRATE
L’uomo che mangia – dicono le mie labbra – nutre i suoi beni così come i suoi mali. Ogni boccone ch’egli si sente sciogliere e dileguar dentro corre ad infondere nuova energia alle sue virtù; e, insieme, anche ai suoi vizi. Sostenta i suoi crucci; e corrobora, in identica misura, le sue speranze. V’ha un misterioso punto, in cui si distribuisce fra le sue passioni e i suoi propositi. L’amore non può farne a meno; ma l’odio, parimente, lo reclama. La mia gioia e il mio cordoglio, il mio cervello con tutti i suoi progetti, si spartiscono, fraterni, la sostanza ch’è in quell’unico boccone… E tu che ne pensi, figlio di Acumeno?

ERISSIMACO
Penso che peso come te.


SOCRATE
Ascoltami, allora, tu che sei medico. Vedi? Io stavo ammirando in silenzio, poco fa, tutti quei corpi umani intenti a nutrirsi. Mentre si nutre, ciascuno d’essi distribuisce con equità, inconsapevolmente, la debita parte di cibo tanto alle risorse della vita quanto ai germi della morte racchiusi in sé. I corpi sono ignari di quel che fanno; ma operano come operano gli Dei.

ERISSIMACO
Lo avevo notato anch’io, e da gran tempo. Tutto ciò che è introdotto nell’organismo umano, vi si comporta immediatamente secondo gli estri di una fatalità ineluttabile. Si direbbe che l’istmo della gola sia, in un certo senso, la soglia delle necessità capricciose e del mistero costituito. Ivi cessa, col cessare della volontà, il regno sicuro della coscienza. Ecco perché, nell’esercizio dell’arte mia, io ho creduto di dover sopprimere le tante droghe infide che i medici somministrano per lo più alla varietà dei loro pazienti. E rigorosamente mi attengo ai pochi rimedi semplici, coniugati per contrasto della loro stessa natura.

FEDRO
E quali mai?

ERISSIMACO
Sono otto: il caldo e il freddo; l’astinenza e il suo contrario; l’aria e l’acqua; il riposo e il movimento. Null’altro.

SOCRATE
Ma per l’anima, Erissimaco, non ve ne sono che due.

FEDRO
E quali, Socrate diletto?

SOCRATE
La verità e la menzogna.

FEDRO
Spiegati meglio.

SOCRATE
Non stanno forse la verità e la menzogna tra loro in un rapporto identico a quello che corre tra la veglia e il sonno? Non aneli tu dunque il risveglio e la nitidezza della luce, mentre un cattivo sogno ti angustia? Non ci risuscita come la morte il sole, quando si mostra all’orizzonte? E non ci rinfranca la presenza delle solide realtà circostanti? Ma, per inverso, a chi se non proprio al sonno e ai sogni siamo noi soliti ricorrere, perché dissipino la noia e interrompano gli affanni che ci perseguitano nel regno della luce? Noi ripariamo dunque dall’uno stato all’altro: invocando, cioè, il giorno nel cuor della notte; e implorando, al contrario, le tenebre mentre dura la luce. Pavidi di conoscere, e felicissimi nella nostra ignoranza, noi cerchiamo in ciò che è un rimedio a ciò che non è; e in ciò che non è un sollievo di ciò che è; ora, col riparare nella realtà; ora, nell’illusione. L’anima, insomma, non ha altre risorse all’infuori di queste due: la verità, ch’è la sua arma; e la menzogna, che le serve da scudo.

ERISSIMACO
E sta bene…. Ma non temi allora, Socrate mio, la conseguenza che scaturisce da codesto pensiero?

SOCRATE
Quale conseguenza?

ERISSIMACO
Eccola. La verità e la menzogna tendono al medesimo scopo…. È un’unica realtà quella che, agendo per diverse vie, ci fa veritieri o bugiardi. E come ora il caldo ora il freddo alternativamente ci assalgono e ci difendono, così alternativamente ci assalgono e ci difendono ora il vero ora il falso, e le opposte volontà che ad entrambi si riferiscono.

SOCRATE
Nulla di più certo. E che farci? È la vita stessa che vuole così. La vita (lo sai meglio di me) si vale di tutto. Tutto le serve, Erissimaco, per non concludere mai. Per non concludere mai che in sé. Non consiste forse la vita in quel movimento misterioso che, attraverso il flusso degli eventi, mi trasforma senza posa in me stesso, riconducendomi sempre con adeguata prontezza a ritrovare quel medesimo Socrate, perché io forzatamente lo sia nell’atto del solo immaginar di ravvisarlo? La vita è una femmina che danza: e che cesserebbe d’essere femmina indiandosi, qualora potesse obbedire al proprio slancio con l’attingere le nuvole. Ma come on è dato ai mortali di sfiorar le soglie dell’infinito (non nel sonno e non nella veglia) similmente ella ritorna ognora a circoscriversi per entro i propri limiti. Cessa d’essere bioccolo di neve, uccello, idea (d’essere, quindi, tutto ciò che il flauto avrebbe sognato che fosse), perché la stessa terra, da cui fu sospinta nello slancio, la richiama a sé; e la restituisce tutta ansante alla sua natura di femmina e al suo amore…

FEDRO
Miracolo!… Miracolo!… O savio ammirando! Ecco quasi un miracolo autentico! Non appena schiudi la bocca, tu crei ciò che dici. Le tue immagini non si rassegnano a restar pure immagini!…. Guarda! Come se dalle tue labbra nascesse per incanto un’ape, e poi un’altra, e poi un’altra, tutto uno sciame, ecco il coro alato delle danzatrici divine!…. L’aria risuona e bombisce di orchestrici presagi!…. È, intorno, come un riaccendersi di fiaccole…. E sui muri agitati dalle fiamme trasecolano, irrequiete, le ombre enormi degli ubriachi!…. Mirate quello stormo di creature tra lievi e solenni!…. Avanzano quasi fossero anime…


SOCRATE
Guarda, per tutti gli Dei, quale luminosa teoria di danzatrici!…. Sembra che entri, con essa, viva e leggiadra, una teoria di pensieri infallibili…. Le loro mani, parlano; e i loro piedi, giureremmo che scrivano. Quanta perfezione di gesti esattissimi è in quegli esseri che si studiano di esercitare così felicemente la duttilità delle proprie forze! Vedo tutti gli ostacoli cadermi innanzi al pensiero; e non v’è più problema che mi affatichi, tanto obbedisco con gioia alla mobilità di quelle figure. Qui, la certezza non è più che un semplice giuoco. Qui, diresti che la conoscenza abbia trovato un gesto in cui tradursi, che l’intelligenza abbia di colpo ceduto al ritmo delle grazie spontanee…. Guardate là! Guardate quella danzatrice che è insieme la più esile e la più assorta nella giustezza pura!…. Chi sarà mai? È soda di una deliziosa sodezza, e agile, tuttavia, di un’agilità indescrivibile…. Cede, riprende e restituisce la cadenza con tanta precisione di tempi che, se abbasso le palpebre, la vede chiaramente il mio udito. E se mi chiudo le orecchie e la guardo, ecco ella esulta tutta quanta musica e rito così, che non m’è possibile non udire un tintinnio di cedre.

FEDRO
Si chiama Rhodopis, credo, colei che ti incanta…

SOCRATE
L’orecchi di Rhodopis è allora, per un prodigio, collegato alla caviglia… Guarda com’è giusta nei tempi!… La vecchia cadenza rinasce in lei perpetuamente più giovine!

ERISSIMACO
Ma no, Fedro: t’inganni. Rhodopis è quell’altra laggiù: così dolce, che sembra fatta per essere accarezzata in eterno dagli occhi.

SOCRATE
E chi è dunque mai quell’esile prodigio di flessuosità?

ERISSIMACO
È Rhodonia.

SOCRATE
E allora, l’orecchio di costei, di Rhodonia, si collega alla caviglia, miracolosamente.

ERISSIMACO
Io le conosco tutte, d’altronde: a una a una. E posso dirvi i loro nomi, senza eccezione, ordinati entro il giro di una piccola strofa che si ritiene facilmente a memoria:
Nips, Niphoé, Néma;
Niktéris, Néphélé, Néxis;
Rhodopis, Rhodonia, Ptilé.
Quel piccolo orrendo danzatore laggiù, si chiama Nettarion… Ma non vedo giungere ancora la regina del Coro.

FEDRO

Chi regna dunque su quello sciame d’api?

ERISSIMACO
La eccelsa, la stupefacente danzatrice Athikté.

FEDRO
Come le conosci tutte per nome!

ERISSIMACO
Quelle graziose creature ne hanno più d’uno. Dopo il nome che ricevettero nascendo, altri ne ebbero dai loro più intimi…

FEDRO
Ma fra gli intimi, il più intimo di ciascuna sei tu…. Vedo che le conosci a dismisura.


ERISSIMACO
Sì, le conosco bene; anzi, benissimo. In un certo senso, un po’ meglio di quel che non si conoscano loro stesse. Rifletti: non sono io forse il medico, o Fedro? In me e per me, tutti gli enigmi della medicina si barattano segretamente con tutti gli enigmi della danza. Esse ricorrono alle mie cure per ogni più piccola cosa: storte, lievi eruzioni cutanee, allucinazioni, sofferenze di cuore. E anche per tutti i vari accidenti che naturalmente derivano dalle caratteristica mobilità dell’arte loro. Infine, ricorrono a me per alcuni misteriosi malanni: finanche per la gelosia artistica o per la gelosia d’amore; finanche per i sogni… Non sai che basta mi sussurrino all’orecchio il sogno da cui sono afflitte, perché io riesca a concludere: “Un dente guasto”?

SOCRATE
O uomo ammirevole, esperto nel dedurre dai sogni il mal di denti, pensi che i filosofi li abbian davvero tutti guasti?

ERISSIMACO
Gli Dei mi preservino dal morso di Socrate!

FEDRO
Guardate piuttosto il giuoco di quelle braccia e di quelle gambe innumerevoli!… Così poche creature bastano a divenir mille prodigi!… Mille fiaccole, mille effimeri peristili… e cancellate, e colonne…. Le immagini si fondono, svaniscono…. Vedo un boschetto con i bei rami agitati dalle brezze della musica. V’ha dunque un sogno, Erissimaco, che produca nei nostri spiriti più tormenti e più perigliose alterazioni?

SOCRATE

Ma questa è per l’appunto, Fedro diletto, l’antitesi di un sogno.

FEDRO

Eppure, io sogno…. Sogno, moltiplicata all’infinito per se stessa, la inesauribile vaghezza di quegli incontri e di quegli scambi tra le dolci forme virginee. Sogno quegli ineffabili contatti che si producono nell’anima tra i ritmi, i candori e lo svariar delle soavi membra in cadenza. Sogno gli accenti di quella muta sinfonia in cui sembra trasferita la variopinta totalità delle cose…. Respiro come un profumo composito di grappoli quel miscuglio di fanciulle maliarde. E mi smarrisco nel labirinto di grazie, in cui ciascuna di perde con una compagna per ritrovarsi con un’altra.

SOCRATE
Ebbene, anima voluttuosa: non scorgere in tutto questo se non l’antitesi del sogno e l’assenza di fatalità…. Ma che cos’è, o Fedro, l’antitesi di un sogno se non un sogno essa stessa; se non un sogno vigile e teso sognato dalla Ragione?…. E in che consisterebbe mai questo sono della Ragione? Se la Ragione potesse sognare, rigida, eretta, con l’occhio armato, padrona delle proprie ermetiche labbra, non sarebbe forse il suo sogno per l’appunto ciò che noi adesso vediamo: e, dunque, proprio quel mondo di forze precise e di elaborate illusioni? Un sogno, sì, un sogno: ma un sogno tutto compenetrato di simmetrie, tutto ordine, tutto atti e sequenze!…. Chi sa mai quali auguste leggi sognano qui di avere assunto dei volti chiari, d’essersi accordate nel proposito di rivelare agli uomini come il reale, l’irreale e l’intelligibile possano fondersi e combinarsi secondo l’onnipotente volontà delle Muse?

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FONTE: “L’ANIMA E LA DANZA di Paul Valery.
Traduzione di Vincenzo Errante.
Unica traduzione italiana autorizzata da Paul Valery.

Ermes Jacchìa Editore, Vicenza, 1933.

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– Paul Valery, biografia su Wikipedia.