Antonia Pozzi – Parole (Parte 3)
Novembre
E poi – se accadrà ch’io me ne vado –
resterà qualche cosa
di me
nel mio fondo –
resterà un’esile scia di silenzio
in mezzo alle voci –
un tenue fiato di bianco
in cuore all’azzurro.
Ed una sera di novembre
una bambina gracile
all’angolo d’una strada
venderà tanti crisantemi
e ci saranno le stelle
gelide verdi remote.
Qualcuno piangerà
chissà dove – chissà dove.
Qualcuno cercherà i crisantemi
per me
nel mondo
quando accadrà che senza ritorno
io me ne debba andare.
Antonia Pozzi
Milano, 29 ottobre 1930
* * *
Presagio
Esita l’ultima luce
fra le dita congiunte dei pioppi,
l’ombra trema di freddo e d’attesa
dietro di noi
e lenta muove intorno le braccia
per farci più soli.
Cade l’ultima luce
sulle chiome dei tigli,
in cielo le dita dei pioppi
s’inanellano di stelle.
Qualcosa dal cielo discende
verso l’ombra che trema,
qualcosa passa
nella tenebra nostra
come un biancore,
forse qualcosa che ancora
non è,
forse qualcuno che sarà
domani,
forse una creatura
del nostro pianto.
Antonia Pozzi
Milano, 15 novembre 1930
* * *
Sorelle, a voi non dispiace…
Sorelle, a voi non dispiace
ch’io segua anche stasera
la vostra via?
Così dolce è passare
senza parole
per le buie strade del mondo,
per le bianche strade dei vostri pensieri,
così dolce è sentirsi
una piccola ombra
in riva alla luce,
così dolce serrarsi
contro il cuore in silenzio
come la vita più fonda
solo ascoltando le vostre anime andare,
solo rubando
con gli occhi fissi
l’anima delle cose.
Sorelle, se a voi non dispiace,
io seguirò ogni sera
la vostra via
pensando ad un cielo notturno
per cui due bianche stelle conducano
una stellina cieca
verso il grembo del mare.
Antonia Pozzi
Milano, 6 dicembre 1930
* * *
Notturno invernale
Così lieve è il tuo passo, fanciullo,
che quasi non t’odo,
dietro me, sul sentiero.
E così pura è l’ora, così puro
il lume delle grandi stelle
nel cielo viola
che l’anima schiarisce
dentro la notte
come i tetri pini che albeggiano
nel biancore della neve.
Un altro sonno tiene la foresta
ed i monti
e tutta la terra.
Come una grazia cada
dal cielo il silenzio.
Ed io ti sento l’anima battere,
dietro il silenzio,
come un filo vivo di acque
dietro un velo di ghiaccio
e il cuore mi trema,
come trema il viandante
quando il vento gli porta
attraverso la notte
l’eco d’un altro passo
che segue il suo cammino.
Fanciullo, fanciullo,
sopra il mio cammino,
che va per una landa senza ombre,
sono i tuoi puri occhi
due miracolose corolle
sbocciate a lavarmi lo sguardo.
Fanciullo, noi siamo
in quest’ora divina
due rondini che s’incrociano
nell’infinito cielo,
prima di mettersi in rotta
per plaghe remote.
E domani saremo
soli
col nostro cuore
verso il nostro destino.
Ma ancora, nel profondo, tremerà
il palpito lontano delle ali sorelle
e si convertirà
in nuova ansia di volo.
Antonia Pozzi
gennaio 1931
* * *
La porta che si chiude
Tu lo vedi, sorella: io sono stanca,
stanca, logora, scossa,
come il pilastro d’un cancello angusto
al limitare d’un immenso cortile;
come un vecchio pilastro
che per tutta la vita
sia stato diga all’irruente fuga
d’una folla rinchiusa.
Oh, le parole prigioniere
che battono battono
furiosamente
alla porta dell’anima
e la porta dell’anima
che a palmo a palmo
spietatamente
si chiude!
Ed ogni giorno il varco si stringe
ed ogni giorno l’assalto è più duro.
E l’ultimo giorno
– io lo so –
l’ultimo giorno
quando un’unica lama di luce
pioverà dall’estremo spiraglio
dentro la tenebra,
allora sarà l’onda mostruosa,
l’urto tremendo,
l’urlo mortale
delle parole non nate
verso l’ultimo sogno di sole.
E poi,
dietro la porta per sempre chiusa,
sarà la notte intera,
la frescura,
il silenzio.
E poi,
con le labbra serrate,
con gli occhi aperti
sull’arcano cielo dell’ombra,
sarà
– tu lo sai –
la pace.
Antonia Pozzi
Milano, 10 febbraio 1931
* * *
In riva alla vita
Ritorno per la strada consueta,
alla solita ora,
sotto un cielo invernale senza rondini,
un cielo d’oro ancora senza stelle.
Grava sopra le palpebre l’ombra
come una lunga mano velata
e i passi in lento abbandono s’attardano,
tanto nota è la via
e deserta
e silente.
Scattano due bambini
da un buio andito
agitando le braccia:
l’ombra sobbalza
striata da un tremulo volo
di chiare stelle filanti.
Gridano le campane,
gridano tutte
per improvviso risveglio,
gridano per arcana meraviglia,
come a un annuncio divino:
l’anima si spalanca
con le pupille
in un balzo di vita.
Sostano i bimbi
con le mani unite
ed io sosto
per non calpestare
le pallide stelle filanti
abbandonate in mezzo alla via.
Sostano i bimbi cantando
con la gracile voce
il canto alto delle campane: ed io sosto
pensandomi ferma stasera
in riva alla vita
come un cespo di giunchi
che tremi
presso un’acqua in cammino.
Antonia Pozzi
Milano, 12 febbraio 1931
* * *
L’orma del vento
Corre incontro al sereno il folle vento
recando nelle aeree braccia
una tremante attesa di gemme.
Corre l’anima incontro
a un ignoto miracolo
recando in tutto l’essere
un’infinita, prodigiosa attesa.
Tornano i passi a strade abbandonate,
per un sole che ride
come in luoghi lontani,
per un’aria che odora
come in perduti giorni.
Torna l’ansia di un tempo
e la certezza
la divina certezza ritorna:
oh, tu ancora mi attendi
in fondo a questa via,
presso il vecchio cancello
mascherato d’edera nera!
Ancora, ancora
tu mi prendi le mani
e me le baci
e mi chiami giaggiolo…
Urta il folle vento e si spezza
contro un cumulo greve di nubi.
L’aria sembra morire
senza respiro.
Oh, tu non torni,
tu non puoi tornare!
Ben altra pena,
ben altro sangue
chiama i miracoli!
Cade il folle vento: si perde
dietro le nebbie grigie il sereno.
L’anima sembra morire
senza più sogni.
E il cielo è ormai tutto di perla
e chiama, chiama,
nel vuoto enorme,
un sorriso di stelle.
Presso il vecchio cancello,
contro le croci nere dell’edera,
una fioraia ha deposto i suoi fiori.
Per poche lire mi compro
un mazzo magro di fresie,
e a consolarmi l’anima
basta il pensiero
che il grande ignoto miracolo,
il volto arcano
della mia attesa prodigiosa,
si chiuda in queste bocche protese
che mordono con labbra di viola
qualche pallido filo di sole;
in queste tenui vite
che nella malinconia di una sera
calata sopra un’orma di vento,
fanciullescamente mi dono,
per la mia primavera.
Antonia Pozzi
Milano, 27 febbraio 1931
* * *
Nel duomo
Sospingo una delle grevi porte
e mi cade alle spalle
la furia del meriggio ventoso.
A lenti passi m’inoltro,
bevendo l’ombra improvvisa
in lunghi battiti
delle palpebre stanche:
suonano i passi come morte cose
scagliate dentro un’acqua tranquilla
che in tremulo affanno rifletta
da riva a riva
l’eco cupa del tonfo.
Remiga la tristezza ad ancorarsi
in golfi arcani
d’oscurità profonde;
remiga per un mare favoloso,
ove sono i pilastri
tronchi d’una subacquea pineta,
viva e fitta così
per lontananze senza confine…
Brucia nella tenebra
una lucente siepe di ceri:
gli occhi vi si fissano
subitamente
e l’anima discende
dalle sperdute immensità
chiudendosi
in un nodo di fiamme.
Dinnanzi alla tremante fioritura
che chissà qual divino alito inclina
verso il sorriso di un’antica madonna,
è immoto un bimbo.
Guarda, il piccolo, assorto,
e certo vede
nella cappella accesa
uno stupendo albero di Natale,
a cui siano fronde
le diafane dita dei ceri.
Certo sogna, il bambino,
che sian tutti balocchi
i rozzi vetri sanguigni
in cui esita un pallido lume…
Gli sbocca nei grandi occhi intenti
la piccola vita
e tutto si allarga
nella celeste immensità del sogno.
Sfocia così il tumulto
d’ogni mio male
nel riposo di un’estasi
senza confine
e l’anima ritrova la sua pace,
come un folle balzo di acque
che si plachi, incontrando
la suprema quiete del mare.
Antonia Pozzi
Milano, 3 marzo 1931
* * *
Domani
Se chiudo gli occhi a pensare
quale sarà il mio domani,
vedo una larga strada
che sale
dal cuore d’una città sconosciuta
verso gli alberi alti
d’un antico giardino.
Sole, sole violento
e in fondo
le ombrelle nere dei pini
che macchiano l’azzurro.
S’agita nella strada
una folla d’ignoti passanti:
ma nessuno mi guarda,
nessuno mi chiede
di me,
del mio pianto,
di tutto il pianto
che fu versato
quando dovetti lasciare
il mio paese lontano.
Oggi io cammino
senza piangere più
e non m’importa, non m’importa
che l’anima non abbia nulla di suo,
nemmeno più il dolore:
oggi tutta la vita
mi pulsa nel palmo d’una mano,
mi trema in cima alle dita
che serrano
teneramente
la manina della mia creatura.
Oh bimbo, bimbo mio non nato,
la tua mamma non sa
che viso avrai,
ma la tua manina la sente
per ogni sua vena
leggera
come un piccolo fiore senza peso.
La mamma oggi è venuta
a prenderti alla scuola
(da così pochi giorni ci vai!
Ancora, la mattina,
quando resti là solo,
fai con la bocca un po’ di mestolino);
la mamma oggi è venuta
a prenderti all’uscita
ed ora si ritorna a casa insieme,
adagio,
per non stancare
le tue gambine corte.
Vedi, piccolo: bisogna che saliamo
tutta questa lunga strada.
Quando saremo in cima,
entreremo nel vecchio giardino,
sotto gli alberi neri neri;
lo traverseremo tutto;
usciremo dal piccolo cancello
in fondo all’ultimo viale:
fuori,
sul ciglio del primo prato,
c’è la nostra casa.
Bambino, quando saremo giunti
alla nostra casa,
dopo tanto salire,
io ti solleverò alto da terra,
ti metterò nelle braccia
di chi è lassù ad aspettare,
gli dirò: Vedi,
vedi che cosa ti ho portato?
E l’anima,
donato il suo ultimo dono,
resterà nuda e povera
come la spiga vuota.
Ma tu, tu, creatura,
nelle piccole mani porterai,
fiore della rinuncia mia,
tesoro di tutti gli umani,
una speranza di Bene.
Antonia Pozzi
Milano, 27 marzo 1931
* * *
Sera d’aprile
Batte la luna soavemente
di là dai vetri
sul mio vaso di primule:
senza vederla la penso
come una grande primula anch’essa,
stupita,
sola,
nel prato azzurro del cielo.
Antonia Pozzi
Milano, 1 aprile 1931
* * *
Rossori
è l’ora di tornare a casa. La sera
discende quieta in grembo alla valle.
Passa sotto le nude volte dei castani
una muta brezza e ne tremano
il morto fogliame dell’inverno,
il verde gracile che si rinnova
sulle prode scoperte. Le cose,
fatte più grigie, sembrano raccogliersi
in un silenzio assorto.
Attutisce il suo canto
persino la bianca acqua, che scende
da lontano, dall’alto e che stamane
con tanta furia gridava
la sua gioia d’esser sfuggita
agli artigli del ghiaccio.
È l’ora di tornare. Compongo
in una mano, strettamente, i miei fiori
e nella penombra incupita
ripercorro il sentiero.
Oggi è il giorno dell’Angelo.
Nessuna donna, a ginocchi, risciacqua
lungo il fossato i suoi panni:
gli sgabelli spostati, capovolti
impediscono il passo.
C’è un’aria d’abbandono, oggi, pei campi,
un’aria di solitudine festiva
che fa più triste la tristezza dell’ora.
Ma davanti al cancello
del mio giardino
un grappolo di bimbi
attende il mio ritorno.
Per guardarmi,
per guardarmi bene da vicino,
per vedere com’è fatta
questa cosa curiosa che son io.
Me li trovo davanti all’improvviso,
che mi fissano, dritti,
senza scomporsi:
e di colpo sento
che ho io di loro assai più vergogna
che non essi di me.
Vergogna del mio mazzo
di bucaneve troppo semplici
che a loro paiono brutti,
vergogna del mio passo,
del mio corpo, troppo pesanti,
che a me sembrano goffi…
ed ecco, vorrei essere come loro,
piccina, povera, oscura,
più vicina alla loro piccolezza,
e non aver da dire
la paroletta benevola
che suona male,
non aver da sorridere
con le labbra dure
che si aprono male…
Mi rifugio dietro il cancello
come dietro una porta impenetrabile.
Ma quando devo infilare
la chiave nella toppa
e chiudere
con armeggio sgarbato,
mi sento morire, mi sento morire di vergogna
davanti ai loro occhi tondi di passeri
che mi guardano di là dalle sbarre;
davanti alle loro animette
di passeri liberi, avvezzi
ad entrare, ad uscire
dagli uscioni sgangherati
delle vecchie cascine,
senza smuovere mai
l’enorme catenaccio arrugginito…
Antonia Pozzi
Pasturo, 6 aprile 1931
* * *
Esempi
Anima, sii come il pino:
che tutto l’inverno distende
nella bianca aria vuota
le sue braccia fiorenti
e non cede, non cede,
nemmeno se il vento,
recandogli da tutti i boschi
il suono di tutte le foglie cadute,
gli sussurra parole d’abbandono;
nemmeno se la neve,
gravandolo con tutto il suo peso
del suo freddo candore,
immola le fronde e le trae
violentemente
verso il nero suolo.
Anima, sii come il pino:
e poi arriverà la primavera
e tu la sentirai venire da lontano,
col gemito di tutti i rami nudi
che soffriranno, per rinverdire.
Ma nei tuoi rami vivi
la divina primavera avrà la voce
di tutti i più canori uccelli
ed ai tuoi piedi fiorirà di primule
e di giacinti azzurri
la zolla a cui t’aggrappi
nei giorni della pace
come nei giorni del pianto.
Anima, sii come la montagna:
che quando tutta la valle
è un grande lago di viola
e i tocchi delle campane vi affiorano
come bianche ninfee di suono,
lei sola, in alto, si tende
ad un muto colloquio col sole.
La fascia l’ombra
sempre più da presso
e pare, intorno alla nivea fonte,
una capigliatura greve
che la rovesci,
che la trattenga
dal balzare aerea
verso il suo amore.
Ma l’amore del sole
appassionatamente la cinge
d’uno splendore supremo,
appassionatamente bacia
con i suoi raggi le nubi
che salgono da lei.
Salgono libere, lente
svincolate dall’ombra,
sovrane
al di là d’ogni tenebra,
come pensieri dell’anima eterna
verso l’eterna luce.
Antonia Pozzi
Pasturo, 10 aprile 1931
* * *
La disgrazia
È caduto il ragazzo
del lattivendolo, su per le scale:
un gran rimbombo
nella penombra fredda.
Gronda giù dalle rampe,
a larghe gocciole, il latte
delle bottiglie infrante,
commisto al sangue
delle mani ferite.
Quanto sangue, Signore,
in due povere mani da bambino!
Sulla sudicia pietra
del pianerottolo, ingrossano
pozze di latte cilestrino, opaco,
pozze di sangue rosso, abbacinante,
selvaggiamente libero,
selvaggiamente lieto.
Sopra una sedia dura
della nostra cucina,
bianco, ammollito, il piccolo
sembra ascoltare
il rodìo caldo
del nostro sangue che fugge.
Fuori, per tutti i canali,
insiste
il rodìo freddo
della pioggia che cade.
Antonia Pozzi
3 maggio 1931
* * *
Sogno dell’ultima sera
Per l’ultima sera il vento
a carezzare la mia montagna
che prona, in alto, numera le stelle.
Per l’ultima sera il vento
a donare a ciascun albero un pianto
tormentoso di fronde,
perch’io m’illuda d’ascoltarne un addio.
Poi, nella stanza, a fianco
del mio piccolo letto,
io a togliermi di dosso le mie vesti,
per ogni nodo sfatto dicendo:
è l’ultimo, è l’ultimo, è l’ultimo,
nella mia casa, a fianco
di questo piccolo letto…
Più tardi, come ogni sera, il sonno
a premere con mani grigie il mio capo
e tu, mamma, a riporre
silenziosamente le mie robe,
piangendo, piangendo, piangendo.
Ed ecco io sogno: sono
nel sogno, mamma, un cercatore d’oro,
che va, che va per un’ignota landa
e mai non trova,
mai non trova il suo oro.
La terra è gialla, intorno: poca acqua
stagna qua e la, fra i giunchi.
Ma che fare
dell’acqua, mamma,
se non ho del pane?
Io non ho se non questo sacco lieve
che tu m’hai dato; dentro vi rimane
solo un tuo dolce piccolo ritratto
di quand’eri fanciulla e ricamavi,
esile e bianca, presso la finestra.
Ora poiché non ho
più speranza di vita,
ora poiché non so
se non morire
in questa atroce terra,
mamma, io voglio
baciare il tuo ritratto.
E sfaccio il nodo che serra
questo piccolo sacco
e vi affondo le mani…
Mamma, che sono
questi grani leggeri che mi sfioran le dita,
che mi gonfian le palme,
che mi coprono i polsi?
Briciole sono!
Briciole bianche, briciole di pane!
Mamma, mamma, ma sono
le tue lacrime, queste, le tue lacrime
che fioriscon così, per la mia vita!
Mamma, ma è il tuo
povero pianto, questo, tutto il pianto
che hai versato per me, l’ultima sera!
Tutto il tuo pianto, divenuto pane.
Antonia Pozzi
Repton, 12 luglio 1931
* * *