Cesare Pavese – Lettere ad un’amica

Ieri, con tanta gente attorno, si è dovuto rimandare ancora un volta una conversazione un po’ più geniale. Ma il pomeriggio non è andato perduto egualmente: io le mandai quei fogli, Lei mi rispose con Debussy. Non per il confronto, ma per quello che ciascuno di noi immaginò dentro di sé.
Poi Lei mi ha parlato, confusamente, tra il chiacchierio di tutti. Compresi appena le parole, ricordo soltanto il loro suono, la loro intenzione.
Era intorno a quei miei fogli. Io vorrei che Lei mi ripetesse quelle frasi e rimpiango soltanto di non saper scrivere nel suo linguaggio, la musica.
Ma qualcosa comincio davvero a comprendere. Durante l’Appassionata mi sentivo a tratti intorno il fragore di un mondo che si sconvolge e brucia. Nella Nona, un’ascesa vertiginosa come di stella in stella e, su tutto, un’armonia così remota ed alta che pare eludere anche il suo creatore.
Ma tutto questo a tratti, a lampi, annaspando in una specie di sordità mentale esasperante.
Ho compreso dunque qualcosa? Sono certo che se potessi ascoltare Lei di più e parlare più a lungo e leggerle i miei poeti, come Lei mi suona i suoi musici, noi scopriremmo insieme meraviglie. Ma la vita è pesante, è triste e Lei è lontana e, se anche mi fosse vicina, io sarei ancor più chiuso e triste. Sono come un pianoforte – stonato – che più si ascolta da vicino e peggio è.
Poi, questo è un periodo in cui sto facendo il novelliere spiritoso e la vacuità delle cose che stavo scrivendo l’ho compresa soltanto oggi, ascoltando Beethoven.
Chissà se saprò salvarmi. Pensi: da giugno non ho più messo giù un verso e comincio a convincervi che le mie speranze di poeta siano state un vicolo cieco.
Ora aspetto la morte.
L’altro giorno un mio passato compagno s’è sparato nel cuore e “boccheggiava in una pozza di sangue”.
Ebbene così finiremo tutti.
Sono allegro, no?

Cesare Pavese
via Ponza 3, Torino
3 ottobre 1929

* * *

Perché tutto quanto ho fatto finora è da ricominciare e così sarà per tutta la mia vita. E scriverei soltanto cose che dopo un mese dovrei mutare.

Cesare Pavese
23 dicembre 1929

* * *

Crede, signorina? Io, di ventun’anni di vita, vorrei averne dimenticati venti almeno. Del passato pochi istanti solo, perduti qua e là, mi paiono degni e questi forse perché sono lontani. Ed è proprio l’incidersi inevitabile nella mente delle cose del passato, che rende così rabbiosa la vita, per il rimorso e il rimpianto.
Dopo tante esperienze fallite, che appunto fanno solo soffrire per il ricordo, viene voglia di chiudersi gli occhi e la bocca e tacere, sparire. Non ha mai provato una sera, la vergogna, l’orrore, di aver parlato, di aver riso, di “essere stata” nel mondo, quel giorno? Io comincio a credere che sia una mia mania poiché non passa notte che non soffra questo tormento.
Eppure sono allegro, vado, conosco persone, parlo, lavoro, vivo insomma.
Lei non crede questo?
Mi perdoni queste lettere isteriche.

Cesare Pavese
2 gennaio 1930

* * *

Nota bibliografica delle poesie di Cesare Pavese (1908 – 1950)

LAVORARE STANCA, Edizioni di Solaria, Firenze 1936.

LAVORARE STANCA. NUOVA EDIZIONE AUMENTATA, Einaudi, Torino 1943.

VERRÀ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI, Einaudi, Torino 1951.

POESIE EDITE E INEDITE, a cura di Italo Calvino, Einaudi, Torino 1962.

8 POESIE INEDITE E 4 LETTERE A UN’AMICA (1928-1929), Scheiwiller, Milano 1964.

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