INDICE
- Incontro
- Fumatori di carta
- Ozio
- Pensieri di Deola
- Esatate di San Martino
- Paesaggio 1
- Un poeta è passato
- Luci mute ingioiellano la notte
- Pover’anima stanca e imbellettata
- Sotto il silenzio delle luci enormi
- Rondini lente
- Fragorosa sul viale
- Il giardino profondo
- La gran città schiacciata dalle nubi
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Incontro
Queste dure colline che han fatto il mio corpo
e lo scuotono a tanti ricordi, mi han schiuso il prodigio
di costei, che non sa che la vivo e non riesco a comprenderla.
L’ho incontrata, una sera: una macchia più chiara
sotto le stelle ambigue, nella foschia d’estate.
Era intorno il sentore di queste colline
più profondo dell’ombra, e d’un tratto suonò
come uscisse da queste colline, una voce più netta
e aspra insieme, una voce di tempi perduti.
Qualche volta la vedo, e mi vive dinanzi
definita, immutabile, come un ricordo.
Io non ho mai potuto afferrarla: la sua realtà
ogni volta mi sfugge e mi porta lontano.
Se sia bella, non so. Tra le donne è ben giovane:
mi sorprende, a pensarla, un ricordo remoto
dell’infanzia vissuta tra queste colline, tanto è giovane.
È come il mattino. Mi accenna negli occhi
tutti i cieli lontani di quei mattini remoti.
E ha negli occhi un proposito fermo: la luce più netta
che abbia avuto mai l’alba su queste colline.
L’ho creata dal fondo di tutte le cose
che mi sono più care, e non riesco a comprenderla.
* * *
Fumatori di carta
Mi ha condotto a sentir la sua banda. Si siede in un angolo
e imbocca il clarino. Comincia un baccano d’inferno.
Fuori, un vento furioso e gli schiaffi, tra i lampi,
della pioggia fan sì che la luce vien tolta,
ogni cinque minuti. Nel buio, le facce
dànno dentro stravolte, a suonar a memoria
un ballabile. Energico, il povero amico
tiene tutti, dal fondo. E il clarino si torce,
rompe il chiasso sonoro, s’inoltra, si sfoga
come un’anima sola, in un secco silenzio.
Questi poveri ottono son troppo sovemente ammaccati:
contadine le mani che stringono i tasti,
e le fronti, caparbie, che guardano appena da terra.
Miserabile sangue fiaccato, estenuato
dalle troppe fatiche, si sente muggire
nelle note e l’amico li guida a fatica,
lui che ha man indurite a picchiare una mazza,
a menare una pialla, a strapparsi la vita.
Li ebbe un tempo i compagni e non ha che trent’anni.
Fu di quelli di dopo la guerra, cresciuti alla fame.
Venne anch’egli a Torino, cercando una vita,
e trovò le ingiustizie. Imparò a lavorare
nelle fabbriche senza un sorriso. Imparò a misurare
sulla propria fatica la fame degli altri,
e trovò dappertutto ingiustizie. Tentò darsi pace
camminando, assonnato, le vie interminabili
nella notte, ma vide soltanto a migliaia i lampioni
lucidissimi, su iniquità: donne rauche, ubriachi,
traballanti fantocci sperduti. Era giunto a Torino
un inverno, tra lampi di fabbriche e scorie di fumo;
e sapeva cos’era lavoro. Accettava il lavoro
come un duro destino dell’uomo. Ma tutti gli uomini
lo accettassero e al mondo ci fosse giustizia.
Ma si fece i compagni. Soffriva le lunghe parole
e dovette ascoltarne, aspettando la fine.
Se li fece i compagni. Ogni casa ne aveva famiglie.
La città ne era tutta accerchiata. E la faccia del mondo
ne era tutta coperta. Sentivano in sé
tanta disperazione da vincere il mondo.
Suona secco stasera, malgrado la banda
che ha istruito a uno a uno. Non bada al frastuono
della pioggia e della luce. La faccia severa
fissa attenta un dolore, mordendo il clarino.
Gli ho veduto questi occhi una sera, che soli,
col fratello, più triste di lui di dieci anni,
vegliavano a una luce mancante. Il fratello studiava
su un inutile tornio costruito da lui.
E il mio povero amico accusava il destino
che li tiene inchiodati alla pialla e alla mazza
a nutrire due vecchi, non chiesti.
D’un tratto gridò
che non era il destino se il mondo soffriva,
se la luce del sole strappava bestemmie:
era l’uomo, colpevole.
Almeno potercene andare,
far la libera fame, rispondere no
a una vita che adopera amore e pietà,
la famiglia, il pezzetto di terra, a legarci le mani.
* * *
Ozio
Tutti i gran manifesti attaccati sui muri,
che presentano sopra uno sfondo di fabbriche
l’operaio robusto che si erge nel cielo,
vanno in pezzi, nel sole e nell’acqua. Masino bestemmia
a veder la sua faccia più fiera, sui muri
delle vie, e doverle girare cercando lavoro.
Uno si alza al mattino e si ferma a guardare i giornali
nelle edicole vive di facce di donna a colori:
fa confronti con quelle che passano e perde il suo tempo,
ché ogni donna ha le occhiaie più stracche. Compaiono a un tratto
coi cartelli dei cinematografi addosso alla testa
e con passi sostanti, i vecchiotti vestiti di rosso
e Masino, fissando le facce deformi
e i colori, si tocca le guance e le sente più vuote.
Ogni volta che mangia, Masino ritorna a girare,
perché è segno che ha già lavorato. Traversa le vie
e non guarda più in faccia nessuno. La sera, ritorna
e si stende un momento nei prati con quella ragazza.
Quando è solo, gli piace restare nei prati
tra le case isolate e i rumori sommessi
e talvolta fa un sonno. Le donne non mancano,
come quando era ancora meccanico: adesso è Masino
a cercarne una sola e volerla fedele.
Una volta – da quando va in giro – ha atterrato un rivale
e i colleghi, che li hanno trovati in un fosso,
han dovuto bendargli una mano. Anche quelli non fanno
più nulla, e tre o quattro, affamati, han formato una banda
di clarino e chitarre – volevano averci Masino
che cantasse – e girare le vie a raccogliere i soldi.
Lui Masino ha risposto che canta per niente
ogni volta che ha voglia, ma andare a svegliare le serve
per le strade, è un lavoro da Napoli. I giorni che mangia,
porta ancora con sé pochi amici a metà la collina:
là si chiudono in qualche osteria e ne cantano un pezzo
loro soli, da uomini. Andavano un tempo anche in barca,
ma dal fiume si vede la fabbrica, e fa brutto sangue.
Dopo un giorno a strisciare le suole davanti agli affissi,
alla sera Masino finisce al cinema
dove ha già lavorato, una volta. Fa bene quel buio
alla vista spossata dai troppi lampioni.
Tener dietro alla storia non è una fatica:
vi si vede una bella ragazza e talvolta c’è uomini
che si picchiano secco. Vi sono paesi
che varrebbe la pena di viverci, al posto
degli stupidi attori. Masino contempla,
su un paese di nude colline, di prati e di fabbriche,
la sua testa ingrandita in primissimi piani.
Quelli almeno non danno la rabbia che danno i cartelli
colorati, sugli angoli, e i musi di donna dipinti.
* * *
Pensieri di Deola
Deola passa il mattino seduta al caffè
e nessuno la guarda. A quest’ora in città corron tutti
sotto il sole ancor fresco dell’alba. Non cerca nessuno
neanche Deola, ma fuma pacata e respira il mattino.
Fin che è stata in pensione, ha dovuto dormire a quest’ora
per rifarsi le forze: la stuoia sul letto
la sporcavano con le scarpacce soldati e operai,
i clienti che fiaccan la schiena. Ma, sole, è diverso:
si può fare un lavoro più fine, con poca fatica.
Il signore di ieri, svegliandola presto,
l’ha baciata e condotta (“mi fermerei, cara,
a Torino con te, se potessi”) con sé alla stazione
e augurargli buon viaggio.
È intontita ma fresca stavolta,
e le piace esser libera, Deola, e bere il suo latte
e mangiare brioches. Stamattina è una mezza signora
e, se guarda i passanti, fa solo per non annoiarsi.
A quest’ora in pensione si dorme e c’è puzzo di chiuso
– la padrona va a spasso – è da stupide stare là dentro.
Per girare la sera i locali, ci vuole presenza
e in pensione, a trent’anni, quel po’ che ne resta, si è perso.
Deola siede mostrando il profilo a uno specchio
e si guarda nel fresco del vetro. Un po’ pallida in faccia:
non è il fumo che stagni. Corruga le ciglia.
Ci vorrebbe la voglia che aveva Marì, per durare
in pensione (“perché, cara donna, gli uomini
vengon qui per cavarsi capricci che non glieli toglie
né la moglie né l’innamorata”) e Marì lavorava
instancabile, piena di brio e godeva salute.
I passanti davanti al caffè non distraggono Deola
che lavora soltanto la sera, con lente conquiste
nella musica del suo locale. Gettando le occhiate
a un cliente o cercandogli il piede, le piaccion le orchestre
che la fanno parere un’attrice alla scena d’amore
con un giovane ricco. Le basta un cliente
ogni sera e ha da vivere. (“Forse il signore di ieri
mi portava davvero con sé”). Stare sole, se vuole,
al mattino, e sedere al caffè. Non cercare nessuno.
* * *
Estate di San Martino
Le colline e le rive del Po sono un giallo bruciato
e noi siamo saliti quassù a maturarci nel sole.
Mi racconta costei – come fosse un amico –
Da domani abbandono Torino a non torno mai più.
Sono stanca di vivere tutta la vita in prigione.
Si respira un sentore di terra, di là dalle piante,
a Torino, a quest’ora, lavorano tutti in prigione.
Torno a casa dei miei dove almeno potrò stare sola
senza piangere e senza pensare alla gente che vive.
Là mi caccio un grembiale e mi sfogo in cattive risposte
ai parenti e per tutto l’inverno non esco mai più.
Nei paesi novembre è un bel mese dell’anno:
c’è le foglie colore di terra e le nebbie al mattino,
poi c’è il sole che rompe le nebbie. Lo dico tra me
e respiro l’odore di freddo che ha il sole al mattino.
Me ne vado perché è troppa bella Torino a quest’ora:
a me piace girarci e vedere la gente
e mi tocca star chiusa finch’è tutto buio
e la sera soffrire da sola. Mi vuole vicino
come fossi un amico: quest’oggi ha saltato l’ufficio
per trovare un amico. Ma posso star sola così?
Giorno e notte – l’ufficio – le scale – la stanza da letto –
se alla sera esco a fare due passi non so dove andare
e ritorno cattiva e al mattino non voglio più alzarmi.
Tanto bella sarebbe Torino – poterla godere –
solamente poter respirare. Le piazze e le strade
han lo stesso profumo del tiepido sole
che c’è qui tra le piante. Ritorni al paese.
Ma Torino è il più bello di tutti i paesi.
Se trovassi un amico quest’oggi, starei sempre qui.
* * *
Paesaggio I
(al Pollo)
Non è più coltivata quassù la collina. Ci sono le felci
e la roccia scoperta e la sterilità.
Qui il lavoro non serve più a niente. La vetta è bruciata
e la sola freschezza è il respiro. La grande fatica
è salire quassù: l’eremita ci venne una volta
e da allora è restato a rifarsi le forze.
L’eremita si veste di pelle di capra
e ha un sentore muschioso di bestia e di pipa,
che ha impregnato la terra, i cespugli e la grotta.
Quando fuma la pipa in disparte nel sole,
se lo perdo non so rintracciarlo, perché è del colore
delle felci bruciate. Ci salgono visitatori
che si accasciano sopra una pietra, sudati e affannati,
e lo trovano steso, con gli occhi nel cielo,
che respira profondo. Un lavoro l’ha fatto:
sopra il volto annerito ha lasciato infoltirsi la barba,
pochi peli rossicci. E depone gli sterchi
su uno spiazzo scoperto, a seccarsi nel sole.
Coste e valli di questa collina son verdi e profonde.
Tra le vigne i sentieri conducono su folli gruppi
di ragazze, vestite a colori violenti,
a far feste alla capra e gridare di là alla pianura.
Qualche volta compaiono file di ceste di frutta,
ma non salgono in cima: i villani le portano a casa
sulla schiena, contorti, e riaffondano in mezzo alle foglie.
Hanno troppo da fare e non vanno a vedere l’eremita
i villani, ma scendono, salgono e zappano forte.
Quando han sete, tracannano vino: piantandosi in bocca
la bottiglia, sollevano gli occhi alla vetta bruciata.
La mattina sul fresco sono già di ritorno spossati
dal lavoro dell’alba e, se passa un pezzente,
tutta l’acqua che i pozzi riversano in mezzo ai raccolti
è per lui che la beva. Sogghignano ai gruppi di donne
e domandano quando, vestite di pelle di capra,
siederanno su tante colline ad annerirsi al sole.
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Un poeta è passato
Un poeta è passato
attraverso l’oceano balenante
dell’atmosfera di pietra e d’acciaio
della città notturna.
Lungo le strade rugghiano
infrangendosi in scoppì
le forze inesorabili,
colmi fiumi di stelle
che impazziscono in gorghi.
Il poeta attraversa
tutto il cielo notturno
e ha gesti grandi, come chi combatta.
Un uomo che cadesse tra le stelle
serrerebbe così
le mani dell’angoscia sulla tempia,
rantolando nel ritmo.
Negli aloni di luce
il poeta s’agguaglia nel delirio
agli uragani cosmici di forza
della città notturna.
Cesare Pavese
17 dicembre 1928
* * *
Luci mute ingioiellano la notte
Luci mute ingioiellano la notte
le collane, nei viali, dei lampioni.
La lunga, macerante solitudine
del giorno vile tra le case altissime
si riaccende di tutto il mio sangue
e mi si aderge agli occhi fino al cielo.
Luci bianche, nei viali di vertigine,
si snodano lontano e senza un suono,
senza un essere vivo.
Io sono solo in mezzo all’universo
di tutte queste luci.
Da ogni parte mi s’aprono nei viali
le polveri azzurrine.
I ricordi vilissimi
tacciono per un attimo.
Ed il cielo è offuscato, scomparso.
Domani, sotto il suicidio del sole,
riprenderà la vita solitaria.
Cesare Pavese
1 febbraio 1929
* * *
Pover’anima stanca e imbellettata
Pover’anima stanca e imbellettata,
noi che indugiamo per le vie affollate
logori della vita non vissuta
e tutti intorno ci urtano,
siamo come le povere pedine
che passeggiano lente
e il loro aspetto è un mascherone atroce.
Stringono tra le labbra
la sigaretta rauca
come un ultimo appiglio disperato.
E all’osteria notturna
s’abbandonano a bere il vino sporco
rosso come le bocche.
Io contemplo così la nostra fine,
o anima solitaria,
che alle lacrime il mondo non risponde
e se infuriamo siamo una pietà.
Triste, triste anima,
che ti senti morire come un tisico,
che cosa mai berremo questa notte?
Cesare Pavese
25 febbraio 1929
* * *
Sotto il silenzio delle luci enormi
Sotto il silenzio delle luci enormi
seguo sul marciapiedi
il mio pensiero triste, quasi l’ombra
che mi vacilla innanzi.
Tutto lo scalpiccio della folla
è passato e passato su di noi
che ci siam tesi tanto
per le strade notturne, dilaniandoci,
sì che ormai siamo logori
della lucidità spaventosa
che ha l’asfalto di un viale.
Tante tante persone – quante luci
accendono le piazze –
tante figure lente lente lente
ci han calpestata l’anima.
Ricordo, dello strazio
era parte il mio volto impenetrabile
nelle vetrine glauche.
E il pensiero che tutte quelle membra
si torceranno un giorno in agonia.
Ora strascino il passo
sotto le luci enormi, d’ogni parte,
che in gran silenzio hanno offuscato il cielo.
E ancora intorno ho il rombo
dell’immensa caduta nella morte.
Cesare Pavese
30 marzo 1929
* * *
Rondini lente
Rondini lente
volano su crepuscolo incolore.
Più tetro non sarò mai più:
soltanto un po’ più stanco,
all’ultima agonia.
Non è vita la mia:
i moribondi che ci lascian stringere
da un rantolo alla gola
sono forse anche vili?
Le rondini affannose,
prigioniere del cielo,
fanno impazzire di monotonia.
Dentro il rombo del sangue,
mi sconvolge il cervello
un desiderio atroce di follia.
Cesare Pavese
21 aprile 1929
* * *
Fragorosa sul viale
Fragorosa sul viale
ecco a un tratto l’orchestra che si spegne.
Sull’orchestra in sordina,
canta spiegato un saxofono rauco.
Fin la folla si arresta.
Le case indifferenti
gravano il cielo intorno.
Vibra la voce barbara.
Ecco che la mia vita
si è frantumata a terra come un vetro.
La stanchezza che prima la reggeva
è scomparsa nel vortice del suono.
Resta l’animale inutile.
E le note si afferrano più acute
nell’aria, contorcendosi.
È la mia voce stessa
che echeggia questa notte.
Nell’anima smarrita
canta alto, altissimo la solitudine
una canzone ubriaca della vita.
La stanchezza fuggita,
non vivo per un attimo che all’urlo
modulato, esultante.
Tutta l’anima mia
rabbrividisce e trema e si abbandona
al saxofono rauco.
È una donna in balìa
di un amante, una foglia
nel turbine, un miracolo,
una musica anch’essa.
Rapido, troppo rapido l’istante.
La voce sovrumana,
barbara di dolcezza solitaria,
che, a sollevarmi il capo,
come un amico, impazziva di gioia,
è scomparsa nel gorgo del frastuono.
Da ogni parte riscoppiano i fragori
sprizzando nelle luci.
Io torno a camminare solitario
e quasi mi abbandono.
Dal cielo pesano le case enormi.
E i passanti mi fissano, con occhi
come vuote finestre.
Cesare Pavese
28 maggio 1929
* * *
Il giardino profondo
Il giardino profondo, sulla piazza,
di oscurità e freschezza.
Nella notte, le case
che si perdono enormi nel buio
mostrano tra le masse qualche luce.
Un deserto pauroso in fondo al cielo
remoto, tra le stelle.
La grande febbre splendida
s’attutisce giungendo in questo buio.
Qui è silenzio,
l’alta immobilità di un cimitero.
I rumori e le luci
giungono da lontano,
di là da queste piante.
Dentro l’oscurità
sgorgano luci vive,
ululano frenetiche
nell’abbandono triste
le voci più gioiose.
Giungono soffocate
a morire nel buio senza fondo
come suicidi pallidi
folli ancora di amore per la vita.
Ascoltare nel cuore
le passioni remote,
ascoltarle salire nella notte
sul profumo umidiccio della terra.
Una vegetazione sconosciuta
di desiderio, chiusa in questo cielo
di buio e di silenzio.
Uno sboccio di fuoco dentro il buio,
come quel lume rosso
che sanguina tra gli alberi.
Cesare Pavese
28 giugno 1929
* * *
La gran città schiacciata dalle nubi
– Ieri miracolosamente ho scritto qualcosa.
Potrebbe darsi che rinascessi.
Mi dica lei se ne vale la pena. –
La gran città schiacciata dalle nubi,
in mezzo alla campagna
si colora di un verde spaurito.
Andare per le vie interminabili
sotto un cielo nerastro,
spaccato in lontananza
da un orizzonte chiaro,
nell’alito bagnato dalla pioggia.
Un respiro dell’anima,
via dal tedio e dal freddo,
una porta di liberazione.
Lo sbocco della via
in chiarità lontana
ha l’aspetto di un volto trasognato.
Fantasia di un grand’angelo severo
verde e grigio, librato
dietro le nubi, sopra l’orizzonte.
Ora io vivo in quel bianco spalancato.
E per un attimo d’eternità
levo da terra il capo.
Ma il verde e il grigio
che son pioggia e fango
continuano nel vento
il monotono tedio delle vie.
Sotto il cielo nerastro
io mi dibatto in cose senza senso
che mi martellan come litanie.
Cesare Pavese
4 novembre 1929
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