Cesare Pavese – Poesie famose e poesie inedite (Parte 3)

+ INDICE

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Gente spaesata

Troppo mare. Ne abbiamo veduto abbastanza di mare.
Alla sera, che l’acqua si stende slavata
e sfumata nel nulla, l’amico la fissa
e io fisso l’amico e non parla nessuno.
Nottetempo finiamo a rinchiuderci in fondo a una tampa,
isolati nel fumo, e beviamo. L’amico ha i suoi sogni
(sono un poco monotoni i sogni allo scroscio del mare)
dove l’acqua non è che lo specchio, tra un’isola e l’altra,
di colline, screziate di fiori selvaggi e cascate.
Il suo vino è così. Si contempla, guardando il bicchiere,
a innalzare colline di verde sul piano del mare.
Le colline mi vanno; e lo lascio parlare del mare
perché è un’acqua ben chiara, che mostra persino le pietre.

Vedo solo colline e mi riempiono il cielo e la terra
con le linee sicure dei fianchi, lontane o vicine.
Solamente, le mie sono scabre, e striate di vigne
faticose sul suolo bruciato. L’amico le accetta
e le vuole vestire di fiori e di frutti selvaggi
per scoprirvi ridendo ragazze più nude dei frutti.
Non occorre: ai miei sogni più scabri non manca un sorriso.
Se domani sul presto saremo in cammino
verso quelle colline, potremo incontrar per le vigne
qualche scura ragazza, annerita dal sole,
e, attaccando discorso, mangiarle un po’ d’uva.

* * *

Canzone di strada

Perché vergogna? Quando uno ha pagato il suo tempo,
se lo lasciano uscire, è perché è come tutti
e ce n’è della gente per strada, che è stata in prigione.

Dal mattino alla sera giriamo sui corsi
e che piova o che faccia un bel sole, va sempre per noi.
È un gioia incontrare sui corsi la gente che parla
e parlare da soli, pigliando ragazze a spintoni.
È una gioia fischiar nei portoni aspettando ragazze
e abbracciarle per strada e portarle al cinema
e fumar di nascosto, appoggiati alle belle ginocchia.
È una gioia parlare con loro palpando e ridendo,
e di notte nel letto, sentendo buttarsi al collo
le due braccia che attirano in basso, pensare al mattino
che si tornerà a uscir di prigione nel fresco del sole.

Dal mattino alla sera girare ubriachi
e guardare ridendo i passanti che vanno
e che godono tutti – anche i brutti – a sentirsi per strada.
Dal mattino alla sera cantare ubriachi
e incontrare ubriachi e attaccare discorsi
che ci durino a lungo e ci mettano sete.
Tutti questi individui che vanno parlando tra sé,
li vogliamo alla notte con noi, chiusi in fondo alla tampa,
e seguire con loro la nostra chitarra
che saltella ubriaca e non sta più nel chiuso
ma spalanca le porte a echeggiare nell’aria,
fuori piovano l’acqua o le stelle. Non conta se i corsi
a quest’ora non hanno più belle ragazze a passeggio:
troveremo ben noi l’ubriaco che ride da solo
perché è uscito anche lui di prigione stanotte,
e con lui, strepitando e cantando, faremo il mattino.

* * *

Proprietari


Il mio prete che è nato in campagna, è vissuto vegliando
giorno e notte in città i moribondi e ha riunito in tanti anni
qualche soldo di lasciti per l’ospedale.
Risparmiava soltanto le donne perdute e i bambini
e nel nuovo ospedale – lettucci di ferro imbiancato –
c’è un’intera sezione per donne e bambini perduti.
Ma i morenti che sono scampati, lo vengono ancora a trovare
e gli chiedon consigli di affari. Lo zelo l’ha reso ben magro
tra il sentore dei letti e i discorsi con gente che rantola
e seguire, ogni volta che ha tempo, i suoi morti alla fossa
e pregare per loro, spruzzandoli e benedicendoli.

Una sera di marzo già calda, il mio prete ha sepolto
una vecchia coperta di piaghe: era stata sua madre.
La donnetta era morta al paese, perché l’ospedale
le faceva paura e voleva morir nel suo letto.
Il mio prete quel giorno portava la stola
dei suoi altri defunti, ma sopra la bara
spruzzò a lungo acqua santa e pregò anche più a lungo.
Nella sera già calda, la terra rimossa odorava
sulla bara dov’era un marciume: la vecchia era morta
per il sangue cattivo a vedersi sfumare le terre
che – rimasta lei sola – spettava a lei sola salvare.
Sotto terra, un rosario era avvolto alle mani piagate
che, da vive, con tre o quattro croci su pezzi di carta
s’eran messe in miseria. E il mio prete pregava
che potesse venir perdonata la temerità
della vedova che, mentre il figlio studiava coi preti,
s’era – senza cercar consiglio – presunta da tanto.

L’ospedale ha un giardino che odora di terra,
messo insieme a fatica, per dare ai malati aria buona.
Il mio prete conosce le piante e i cespugli
anche più dei suoi morti, chè quelli rinnovano,
ma le piante e i cespugli sono sempre gli stessi.
Tra quel verde borbotta – a quel modo che fa sulle tombe –
negli istanti che ruba ai malati, e dimentica sempre
di fermarsi davanti alla grotta, che han fatto le suore,
della Natività, in fondo al viale. Si lagna talvolta
che le cure gli han sempre impedito di dare un’occhiata
ai bisogni degli alberi secchi e che mai, da trent’anni,
ha potuto pensare alla requiem eterna.

* * *

Due sigarette


Ogni notte è la liberazione. Si guarda i riflessi
dell’asfalto sui corsi che si aprono lucidi al vento.
Ogni rado passante ha una faccia e una storia.
Ma a quest’ora non c’è più stanchezza: i lampioni a migliaia
sono tutti per chi si sofferma a sfregare un cerino.

La fiammella si spegne sul volto della donna
che mi ha chiesto un cerino. Si spegne nel vento
e la donna delusa ne chiede un secondo
che si spegne: la donna ora ride sommessa.
Qui possiamo parlare a voce alta e gridare,
ché nessuno ci sente. Leviamo gli sguardi
alle tante finestre – occhi spenti che dormono –
e attendiamo. La donna si stringe le spalle
e si lagna che ha perso la sciarpa a colori
che la notte faceva da stufa. Ma basta appoggiarci
contro l’angolo e il vento non è più che un soffio.
Sull’asfalto consunto c’è già un mozzicone.
Questa sciarpa veniva da Rio, ma dice la donna
che è contenta d’averla perduta, perché mi ha incontrato.
Se la sciarpa veniva da Rio, è passata di notte
sull’oceano inondato di luce dal gran transatlantico.
Certo, notti di vento. È il regalo di un suo marinaio.
Non c’è più il marinaio. La donna bisbiglia
che, se salgo con lei, me ne mostra il ritratto
ricciolino e abbronzato. Viaggiava su sporchi vapori
e puliva le macchine: io sono più bello.

Sull’asfalto c’è due mozziconi. Guardiamo nel cielo:
la finestra là in alto – mi addita la donna – è la nostra.
Ma lassù non c’è stufa. La notte, i vapori sperduti
hanno pochi fanali o soltanto le stelle.
Traversiamo l’asfalto a braccetto, giocando a scaldarci.

* * *

Pensieri di Dina


Dentro l’acqua che scorre ormai limpida e fresca di sole,
è un piacere gettarsi: a quest’ora non viene nessuno.
Fanno rabbrividire, le scorze dei pioppi, a toccarle col corpo,
più che l’acqua scrosciante di un tuffo. Sott’acqua è ancor buio
e fa un gelo che accoppa, ma basta saltare nel sole
e si torna a guardare le cose con occhi lavati.

È un piacere distendersi nuda nell’erba già calda
e cercare con gli occhi socchiusi le grandi colline
che sormontano i pioppi e mi vedono nuda
e nessuno di là se ne accorge. Quel vecchio in mutande
e cappello, che andava a pescare, mi ha vista tuffarmi,
ma ha creduto che fossi un ragazzo e nemmeno ha parlato.

Questa sera ritorno una donna nell’abito rosso
– non lo sanno che sono ora stesa qui nuda quegli uomini
che mi fanno i sorrisi per strada – ritorno vestita
a pigliare sorrisi. Non sanno quegli uomini
che stasera avrò fianchi più forti, nell’abito rosso,
e sarò un’altra donna. Nessuno mi vede quaggiù:
e di là dalle piante ci son sabbiatori più forti
di quegli altri che fanno i sorrisi: nessuno mi vede.
Sono sciocchi gli uomini – stasera ballando con tutti
io sarò come nuda, come ora, e nessuno saprà
che poteva trovarmi qui sola. Sarò come loro.
Solamente, gli sciocchi, vorranno abbracciarmi ben stretta,
bisbigliarmi proposte da furbi. Ma cosa importa
delle loro carezze? So farmi carezze da me.
Questa sera dovremmo poter stare nudi e vederci
senza fare sorrisi da furbi. Io sola sorrido
a distendermi qui dentro l’erba e nessuno lo sa.

* * *

Paesaggio II


La collina biancheggia alle stelle, di terra scoperta;
si vedrebbero i ladri, lassù. Tra le ripe del fondo
i filari son tutti nell’ombra. Lassù che ce n’è
e che è terra di chi non patisce, non sale nessuno:
qui nell’umidità, con la scusa di andare a tartufi,
entran dentro la vigna e saccheggiano le uve.

Il mio vecchio ha trovato due graspi buttati
tra le piante e stanotte borbotta. La vigna è già scarsa:
giorno e notte nell’umidità, non ci viene che foglie.
Tra le piante si vedono al cielo le terre scoperte
che di giorno gli rubano il sole. Lassù brucia il sole
tutto il giorno e la terra è calcina: si vede anche al buio.
Là non vengono foglie, la forza va tutta nell’uva.

Il mio vecchio appoggiato a un bastone nell’erba bagnata,
ha la mano convulsa: se vengono i ladri stanotte,
salta in mezzo ai filari e gli fiacca la schiena.
Son gente da farle un servizio da bestie,
ché non vanno a contarla. Ogni tanto alza il capo
annusando nell’aria: gli pare che arrivi nel buio
una punta d’odore terroso, tartufi scavati.

Sulle coste lassù, che si stendono al cielo,
non c’è l’uggia degli alberi: l’uva strascina per terra,
tanto pesa. Nessuno può starci nascosto:
si distinguono in cima le macchie degli alberi
neri e radi. Se avesse la vigna lassù,
il mio vecchio farebbe la guardia da casa, nel letto,
col fucile puntato. Qui, al fondo, nemmeno il fucile
non gli serve, perché dentro il buio non c’è che fogliami.

* * *

Una stagione


Questa donna una volta era fatta di carne
fresca e solida: quando portava un bambino,
si teneva nascosta e intristiva da sola.
Non amava mostrarsi sformata per strada.
Le altre volte (era giovane e senza volerlo
fece molti bambini) passava per strada
con un passo sicuro e sapeva godersi gli istanti.
I vestiti diventavano vento le sere di marzo
e si stringono e tremano intorno alle donne che passano.
Il suo corpo di donna muoveva sicura nel vento
che svaniva lasciandolo saldo. Non ebbe altro bene
che quel corpo, che adesso è consunto dai troppi figliuoli.

Nelle sere di vento si spande un sentore di linfe,
il sentore che aveva da giovane il corpo
tra le vesti superflue. Un sapore di terra bagnata,
che ogni marzo ritorna. Anche dove in città non c’è viali
e non giunge col sole il respiro del vento,
il suo corpo viveva, esalando di succhi
in fermento, tra i muri di pietra. Col tempo, anche lei,
che ha nutrito altri corpi, si è rotta e piegata.
Non è bello guardarla, ha perduto ogni forza;
ma, dei molti, una figlia ritorna a passare
per le strade, la sera, e ostentare nel vento
sotto gli alberi, solido e fresco, il suo corpo che vive.

E c’è un figlio che gira e sa stare da solo
e si sa divertire da solo. Ma guarda nei vetri,
compiaciuto del modo che tiene a braccetto
la compagna. Gli piace, d’un gioco di muscoli,
accostarsela mentre rilutta e baciarla sul collo.
Soprattutto gli piace, poi che ha generato
su quel corpo, lasciarlo intristire e tornare a se stesso.
Un amplesso lo fa solamente sorridere e un figlio
lo farebbe indignare. Lo sa la ragazza, che attende,
e prepara se stessa a nascondere il ventre sformato
e si gode con lui, compiacente, e gli ammira la forza
di quel corpo che serve per compiere tante altre cose.

* * *

Il dio-caprone


La campagna è un paese di verdi misteri
al ragazzo, che viene d’estate. La capra, che morde
certi fiori, le gonfia la pancia e bisogna che corra.
Quando l’uomo ha goduto con qualche ragazza
– hanno peli là sotto – il bambino le gonfia la pancia.
Pascolando le capre, si fanno bravate e sogghigni,
ma al crepuscolo ognuna comincia a guardarsi le spalle.
I ragazzi conoscono quando è passata la biscia
dalla striscia sinuosa che resta per terra.
Ma nessuno conosce se passa la biscia
dentro l’erba. Ci sono le capre che vanno a fermarsi
sulla biscia, nell’erba, e che godono a farsi succhiare.
Le ragazze anche godono, a farsi toccare.

Al levar della luna le capre non stanno più chete,
ma bisogna raccoglierle e spingerle a casa,
altrimenti si drizza il caprone. Saltando nel prato
sventra tutte le capre e scompare. Ragazze in calore
dentro i boschi ci vengono sole, di notte,
e il caprone, se belano stese nell’erba, le corre a trovare.
Ma, che spunti la luna: si drizza e le sventra.
E le cagne, che abbaiano sotto la luna,
è perché hanno sentito il caprone che salta
sulle cime dei colli e annusato l’odore del sangue.
E le bestie si scuotono dentro le stalle.
Solamente i cagnacci più forti dàn morsi alla corda
e qualcuno si libera e corre a seguire il caprone,
che li spruzza e ubriaca di un sangue più rosso del fuoco,
e poi ballano tutti, tenendosi ritti e ululando alla luna.

Quando, a giorno, il cagnaccio ritorna spelato e ringhioso,
i villani gli dànno la cagna a pedate di dietro.
E alla figlia, che gira di sera, e ai ragazzi, che tornano
quand’è buio, smarrita una capra, gli fiaccano il collo.
Riempion donne, i villani, e faticano senza rispetto.
Vanno in giro di giorno e di notte e non hanno paura
di zappare anche sotto la luna o di accendere un fuoco
di gramigne nel buio. Per questo, la terra
è così bella verde e, zappata, ha il colore,
sotto l’alba, dei volti bruciati. Si va alla vendemmia
e si mangia e si canta; si va a spannocchiare
e si balla e si beve. Si sente ragazze che ridono,
ché qualcuno ricorda il caprone. Su, in cima, nei boschi,
tra le ripe sassose, i villani l’han visto
che cercava la capra e picchiava zuccate nei tronchi.
Perché, quando una bestia non sa lavorare
e si tiene soltanto da monta, gli piace distruggere.


* * *

Mania di solitudine


Mangio un poco di cena alla chiara finestra.
Nella stanza è già buio e si vede nel cielo.
A uscir fuori, le vie tranquille conducono
dopo un poco, in aperta campagna.
Mangio e guardo nel cielo – chi sa quante donne
stan mangiando a quest’ora – il mio corpo è tranquillo;
il lavoro stordisce il mio corpo e ogni donna.

Fuori, dopo la cena, verranno le stelle a toccare
sulla larga pianura la terra. Le stelle son vive,
ma non valgono queste ciliegie, che mangio da solo.
Vedo il cielo, ma so che tra i tetti di ruggine
qualche lume già brilla e che, sotto, si fanno rumori.
Un gran sorso e il mio corpo assapora la vita
delle piante e dei fiumi, e si sente staccato da tutto.
Basta un po’ di silenzio e ogni cosa si ferma
nel suo lugo reale, così com’è fermo il mio corpo.

Ogni cosa è isolata davanti ai miei sensi,
che l’accettano senza scomporsi: un brusìo di silenzio.
Ogni cosa nel buio la posso sapere
come so che il mio sangue trascorre le vene.
La pianura è un gran scorrere d’acque tra l’erbe,
una cena di tutte le cose. Ogni pianta e ogni sasso
vive immobile. Ascolto i miei cibi nutrirmi le vene
di ogni cosa che vive su questa pianura.

Non importa la notte. Il quadrato di cielo
mi sussurra di tutti i fragori, e una stella minuta
si dibatte nel vuoto, lontana dai cibi,
dalle case, diversa. Non basta a se stessa,
e ha bisogno di troppe compagne. Qui al buio, da solo,
il mio corpo è tranquillo e si sente padrone.


* * *

Atlantic Oil


Il meccanico sbronzo è felice buttato in fosso.
Dalla piola, di notte, con cinque minuti di prato,
uno è a casa; ma prima c’è il fresco dell’erba
da godere, e il meccanico dorme che viene già l’alba.
A due passi, nel prato, è rizzato il cartello
rosso e nero: chi troppo s’accosti, non riesce più a leggerlo,
tanto è largo. A quest’ora è ancor umido
di rugiada. La strada, di giorno, lo copre di polvere,
come copre i cespugli. Il meccanico, sotto, si stira nel sonno.

È l’estremo silenzio. Tra poco, al tepore del sole,
passeranno le macchine senza riposo, svegliando la polvere.
Improvvise alla cima del colle, rallentano un poco,
poi si buttano giù dalla curva. Qualcuna si ferma
nella polvere, avanti al garage, che la imbeve di litri.
I meccanici, un poco intontiti, saranno al mattino
sui bidoni, seduti, aspettando un lavoro.
Fa piacere passare il mattino seduto nell’ombra.
Qui la puzza degli olii si mesce all’odore di verde,
di tabacco e di vino, e il lavoro li viene a trovare
sulla porta di casa. Ogni tanto, c’è fino da ridere:
contadine che passano e dànno la colpa, di bestie e di spose
spaventate, al garage che mantiene il passaggio;
contadini che guardano bieco. Ciascuno, ogni tanto,
fa una svelta discesa a Torino e ritorna più sgombro.

Poi, tra il ridere e il vendere litri, qualcuno si ferma:
questi campi, a guardarli, son pieni di polvere
della strada e, a sedersi sull’erba, si viene schiacciati.
Tra le coste, c’è sempre una vigna che piace sulle altre:
finirà che il meccanico sposa la vigna che gli piace
con la cara ragazza, e uscirà dentro il sole,
ma a zappare, e verrà tutto nero sul collo
e berrà del suo vino, torchiato le sere d’autunno in cantina.

Anche a notte ci passano macchine, ma silenziose,
tantochè l’ubriaco, nel fosso, non l’hanno svegliato.
Nella notte non levano polvere e il fascio dei fari
svela in peno il cartello sul prato, alla curva.
Sotto l’alba trascorrono caute e non s’ode rumore,
se non brezza che passa, e toccata la cima
si dileguano nella pianura, affondando nell’ombra.


* * *

Crepuscolo di sabbiatori


I barconi risalgono adagio, sospinti e pesanti:
quasi immobili, fanno schiumare la viva corrente.
È già quasi la notte. Isolati, si fermano:
si dibatte e sussulta la vanga sott’acqua.
Di ora in ora, altre barche son state fin qui.
Tanti corpi di donna han varcato nel sole
su quest’acqua. Son scese nell’acqua o saltate alla riva
a dibattersi in coppia, qualcuna, sull’erba.
Nel crepuscolo, il fiume è deserto. I due o tre sabbiatori
sono scesi con l’acqua alla cintola e scavano il fondo.
Il gran gelo dell’inguine fiacca e intontisce le schiene.

Quelle donne non sono che un bianco ricordo.
I barconi nel buio discendono grevi di sabbia,
senza dare una scossa, radenti: ogni uomo è seduto
a una punta e un granello di fuoco gli brucia alla bocca.
Ogni paio di braccia strascina il suo remo,
un tepore discende alle gambe fiaccate
e lontano s’accendono i lumi. Ogni donna è scomparsa,
che al mattino le barche portavano stesa
e che un giovane, dritto alla punta, spingeva sudando.
Quelle donne eran belle: qualcuna scendeva
seminuda e spariva ridendo con qualche compagno.
Quando un qualche inesperto veniva a cozzare,
sabbiatori levavano il capo e l’ingiuria moriva
sulla donna distesa come fosse già nuda.
Ora tornavano tutti i sussulti, intravisti nell’erba,
a occupare il silenzio e ogni cosa s’accentra
sulla punta di fuoco, che vive. Ora l’occhio
si smarrisce nel fumo invisibile ch’esce di bocca
e le membra ritrovano l’urto del sangue.

In distanza, sul fiume, scintillano i lumi
di Torino. Due o tre sabbiatori hanno acceso
sulla prua il fanale, ma il fiume è deserto.
La fatica del giorno vorrebbe assopirli
e le gambe son quasi spezzate. Qualcuno non pensa
che a attraccare il barcone e cadere sul letto
e mangiare nel sonno, magari sognando.
Ma qualcuno rivede quei corpi nel sole
e avrà ancora la forza di andare in città, sotto i lumi,
a cercare ridendo tra la folla che passa.


* * *

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