+ INDICE
- Città di campagna
- Lavorare stanca I
- Gente che non capisce
- Casa in costruzione
- Balletto
- Agonia
- Gente non convinta
- Fine della fantasia
- Cattive compagnie
- Piaceri notturni
- Gente che c’è stata
- Paternità
- Disciplina antica
- Indisciplina
- Mediterranea
- Disciplina
* * *
Città in campagna
Papà beve la tavolo avvolto da pergole verdi
e il ragazzo s’annoia seduto. Il cavallo s’annoia
posseduto da mosche: il ragazzo vorrebbe acchiapparne,
ma papà l’ha sottocchio. Le pergole dànno nel vuoto
sulla valle. Il ragazzo non guarda più al fondo,
perché ha voglia di fare un gran salto. Alza gli occhi:
non c’è più belle nuvole: gli amassi splendenti
si son chiusi a nascondere il fresco del cielo.
Si lamenta, papà, che ci sia da patire più caldo
nella gita per vendere l’uva, che a mietere il grano.
Chi ha mai visto in settembre quel sole rovente
e doversi fermare, al ritorno, dall’oste,
altrimenti gli crepa il cavallo. Ma l’uva è venduta;
qualcun altro ci pensa, di qui alla vendemmia:
se anche grandina, il prezzo è già fatto. Il ragazzo s’annoia
il suo sorso papà gliel’ha già fatto bere.
Non c’è più che guardare quel bianco maligno,
sotto il nero dell’afa, e sperare nell’acqua.
Le vie fresche di mezza mattina erano piene di portici
e di gente. Gridavano in piazza. Girava il gelato
bianco e rosa: pareva le nuvole sode nel cielo.
Se faceva sto caldo in città, si fermavano a pranzo
nell’albergo. La polvere e il caldo non sporcano i muri
in città: lungo i viali le case sono bianche.
Il ragazzo alza gli occhi alle nuvole orribili.
In città stanno al fresco a far niente, ma comprano l’uva,
la lavorano in grandi cantine e diventano ricchi.
Se restavano ancora, vedevano in mezzo alle piante,
nella sera, ogni viale una fila di luci.
Tra le pergole nasce un gran vento. Il cavallo si scuote
e papà guarda in aria. Laggiù nella valle
c’è la casa nel prato e la vigna matura.
Tutt’a un tratto fa freddo e le foglie si staccano
e la polvere vola. Papà beve sempre.
Il ragazzo alza gli occhi alle nuvole orribili.
Sulla valle c’è ancora una chiazza di sole.
Se si fermano qui, mangeranno dall’oste.
Cesare Pavese
* * *
Lavorare stanca I
I due, stesi sull’erba, vestiti, si guardano in faccia
tra gli steli sottili: la donna gli morde i capelli
e poi morde nell’erba. Sorride scomposta, tra l’erba.
L’uomo afferra la mano sottile e la morde
e s’addossa col corpo. La donna gli rotola via.
Mezza l’erba del prato è così scompigliata.
La ragazza, seduta, s’aggiusta i capelli
e non guarda il compagno, occhi aperti, disteso.
Tutti e due, a un tavolino, si guardano in faccia
nella sera, e i passanti non cessano mai.
Ogni tanto un colore più gaio li distrae.
Ogni tanto lui pensa all’inutile giorno
di riposo, trascorso a inseguire costei,
che è felice di stargli vicina e guardarlo negli occhi.
Se le tocca col piede la gamba, sa bene
che si danno a vicenda uno sguardo sorpreso
e un sorriso, e la donna è felice. Altre donne che passano
non lo guardano in faccia, ma almeno si spogliano
con un uomo stanotte. O che forse ogni donna
ama solo chi perde il suo tempo per nulla.
Tutto il giorno si sono inseguiti e la donna è ancor rossa
alle guance, dal sole. Nel cuore ha per lui gratitudine.
Le ricorda un baciozzo rabbioso scambiato in un bosco,
interrotto a un rumore di passi, e che ancora la brucia.
Stringe a sé il mazzo verde – raccolto sul sasso
di una grotta – di bel capelvenere e volge al compagno
un’occhiata struggente. Lui fissa il groviglio
degli steli nericci tra il verde tremante
e ripensa alla voglia di un altro groviglio,
presentito nel grembo dell’abito chiaro,
che la donna gli ignora. Nemmeno la furia
non gli vale, perché la ragazza, che lo ama, riduce
ogni assalto in un bacio e gli prende le mani.
Ma stanotte, lasciatala, sa dove andrà:
tornerà a casa rotto di schiena e intontito,
ma assaporerà almeno nel corpo saziato
la dolcezza del sonno sul letto deserto.
Solamente, e quest’è la vendetta, s’immaginerà
che quel corpo di donna, che avrà come suo,
sia, senza pudori, in libidine, quello di lei.
Cesare Pavese
* * *
Gente che non capisce
Sotto gli alberi della stazione si accendono i lumi.
Gella sa che a quest’ora sua madre ritorna dai prati
col grembiale rigonfio. In attesa del treno,
Gella guarda tra il verde e sorride al pensiero
di fermarsi anche lei, tra i fanali, a raccogliere l’erba.
Gella sa che sua madre da giovane è stata in città
una volta: lei tutte le sere col buio ne parte
e sul treno ricorda vetrine specchianti
e persone che passano e non guardano in faccia.
La città di sua madre è un cortile rinchiuso
tra muragli, e la gente s’affaccia ai balconi.
Gella torna ogni sera con gli occhi distratti
di colori e di voglie, e spaziando dal treno
pensa, al ritmo monotono, netti profili di vie
tra le luci, e colline percorse di viali e di vita
e gaiezze di giovani, schietti nel passo e nel riso padrone.
Gella è stufa di andare e venire, e tornare la sera
e non vivere né tra le case né in mezzo alle vigne.
La città la vorrebbe su quelle colline,
luminosa, segreta, e non muoversi più.
Così, è troppo diversa. Alla sera ritrova
i fratelli, che tornano scalzi da qualche fatica,
e la madre abbronzata, e si parla di terre
e lei siede in silenzio. Ma ancora ricorda
che, bambina, tornava anche lei col suo fascio dell’erba:
solamente, quelli erano giochi. E la madre che suda
a raccogliere l’erba, perché da trent’anni
l’ha raccolta ogni sera, potrebbe una volta
ben starsene a casa. Nessuno la cerca.
Anche Gella vorrebbe restarsene, sola, nei prati,
ma raggiungere i più solitari, e magari nei boschi.
E aspettare la sera e sporcarsi nell’erba
e magari nel fango e mai più tornare in città.
Non far nulla, perché non c’è nulla che serva a nessuno.
Come fanno le capre, strappare soltanto le foglie più verdi
e impregnarsi i capelli, sudati e bruciati,
di rugiada notturna. Indurirsi le carni
e annerirle e strapparsi le vesti, così che in città
non la vogliano più. Gella è stufa di andare e venire
e sorride al pensiero di entrare in città
sfigurata e scomposta. Finché le colline e le vigne
non saranno scomparse, e potrà passeggiare
per i viali, dov’erano i prati, le sere, ridendo,
Gella avrà queste voglie, guardando dal treno.
Cesare Pavese
* * *
Casa in costruzione
Coi canneti è scomparsa anche l’ombra. Già il sole, di sghembo,
attraversa le arcate e si sfoga per vuoti
che saranno finestre. Lavorano un po’ i muratori,
fin che dura il mattino. Ogni tanto rimpiangono
quando qui ci frusciavano ancora le canne,
e un passante accaldato poteva gettarsi sull’erba.
I ragazzi cominciavano a giungere a sole più alto.
Non lo temono il caldo. I pilastri isolati ne cielo
sono un campo di gioco migliore che gli alberi
o la solita strada. I mattoni scoperti
si riempion d’azzurro, per quando le volte
saran chiuse, e ai ragazzi è una gioia vedersi dal fondo
sopra il capo i riquadri di cielo. Peccato il sereno,
ché un rovescio di pioggia lassù da quei vuoti
piacerebbe ai ragazzi. Sarebbe un lavare la casa.
Certamente stanotte – poterci venire – era meglio:
la rugiada bagnava i mattoni e, distesi tra i muri,
si vedevan le stelle. Magari potevano accendere
un bel fuoco e qualcuno assalirli e pigliarsi a sassate.
Una pietra di notte può uccidere senza rumore.
Poi ci sono le bisce che scendono i muri
e che cadono come una pietra, soltanto più molli.
Cosa accada di notte là dentro, lo sa solo il vecchio
che al mattino si vede discendere le colline.
Lascia braci di fuoco là dentro e ha la barba strinata
dalla vampa e ha già preso tant’acqua, che, come il terreno,
non potrebbe cambiare colore. Fa ridere tutti
perché dice che gli altri si fanno la casa
col sudore e lui senza sudare ci dorme. Ma un vecchio
non dovrebbe durare alla notte scoperta.
Si capisce una coppia in un prato: c’è l’uomo e la donna
che si tengono stretti, e poi tornano a casa.
Ma quel vecchio non ha più una casa e si muove a fatica.
Certamente qualcosa gli accade là dentro,
perché ancora al mattino borbotta tra sé.
Dopo un po’ i muratori si buttano all’ombra.
È il momento che il sole ha investi ogni cosa
e un mattone a toccarlo ci scotta le mani.
S’è già visto una biscia piombare sfuggendo
nella pozza di calce: è il momento che il caldo
fa impazzire perfino le bestie. Si beve una volta
e si vedono le altre colline ogn’intorno, bruciate,
tremolare nel sole. Soltanto uno scemo
resterebbe al lavoro e difatti quel vecchio
a quest’ora traversa le vigne, rubando le zucche.
Poi ci sono i ragazzi sui ponti, che salgono e scendono.
Una volta una pietra è finita sul cranio
del padrone e hanno tutti interrotto il lavoro
per portarlo al torrente e lavargli la faccia.
Cesare Pavese
* * *
Balletto
È un gigante che passa volgendosi appena,
quando attende una donna, e non sembra che attenda.
Ma non fa mica apposta: lui fuma e la gente lo guarda.
Ogni donna che va con quest’uomo è una bimba
che si addossa a quel corpo ridendo, stupita
della gente che guarda. Il gigante s’avvia
e l donna è una parte di tutto il suo corpo,
solamente più viva. La donna non conta,
ogni sera è diversa, ma sempre una piccola
che ridendo contiene il culetto che danza.
Il gigante non vuole un culetto che danzi
per la strada, e pacato lo porta a sedersi
ogni sera alla sfida e la donna è contenta.
Alla sfida, la donna è stordita dagli urli
e, guardando il gigante, ritorna bambina.
Dai due pugilatori si sentono i tonfi
dei saltelli e dei pugni, ma pare che danzino
così nudi allacciati, e la donna li fissa
con gli occhietti e si morde le labbra contenta.
Si abbandona al gigante e ritorna bambina:
è un piacere appoggiarsi a una rupe che accoglie.
Se l donna e il gigante si spogliano insieme
– lo faranno più tardi – il gigante somiglia
alla placidità di una rupe, una rupe bruciante,
e la bimba, a scaldarsi, si stringe a quel masso.
Cesare Pavese
* * *
Agonia
Girerò per le strade finché non sarò stanca morta
saprò vivere sola e fissare negli occhi
ogni volto che passa e restare la stessa.
Questo fresco che sale a cercarmi le vene
è un risveglio che mai nel mattino ho provato
così vero: soltanto, mi sento più forte
che il mio corpo, e un tremore più freddo accompagna il mattino.
Son lontani i mattini che avevo vent’anni.
E domani, ventuno: domani uscirò per le strade,
ne ricordo ogni sasso e le strisce di cielo.
Da donai la gente riprende a vedermi
e sarò ritta in piedi e potrò soffermarmi
e specchiarmi in vetrine. I mattini di un tempo,
ero giovane e non lo sapevo, e nemmeno sapevo
di esser io che passavo – una donna, padrona
di se stessa. La maga bambina che fui
si è svegliata da un pianto durato per anni:
ora è come quel pianto non fosse mai stato.
E desidero solo colori. I colori non piangono,
sono come un risveglio: domani i colori
torneranno. Ciascuna uscirà per la strada,
ogni corpo un colore – perfino i bambini.
Questo corpo vestito di rosso leggero
dopo tanto pallore riavrà la sua vita.
Sentirò intorno a me scivolare gli sguardi
e saprò d’esser io: gettando un’occhiata,
mi vedrò tra la gente. Ogni nuovo mattino,
uscirò per le strade cercando i colori.
Cesare Pavese
* * *
Gente non convinta
Questa pioggia che cade per piazze e strade,
e in caserma e in collina, va tutta sprecata.
Domattina le piante saranno lavate,
lungo i viali, e il cortile in caserma bel molle,
da sfangarci al ginocchio: i lavori che fanno in città
sembran tutti quest’acqua che cade sui tetti.
(Fuori, piova nel buio per tutte le strade,
finirà che domani per terra c’è l’erba).
Si è veduto stasera venire giù l’acqua
per i fossi, in collina, e la terra ingiallita
dalle foglie e dal fango. Ma, sopra il sentore
della terra, uno sterile tanfo di fiori
che succhiavano l’acqua, e tra i fiori, le ville
che grondavano pioggia. Soltanto dall’altro versante,
arrivare sul vento un sentore di vigna.
(Fuori, piova nel buio per piazze e per strade,
non importa: c’è un vino che viene a scaldarci
di un calore che ancora domani sapremo cos’è).
C’è un odore di pietra nel vento bagnato,
e per terra, soltanto rotaie. Le donne che passano
le conosce nessuno. Le donne in città
sono sempre diverse e non servono a niente.
Nel casino, là sì che gli odori sono buoni
e le donne son brave. Ma vivono come in caserma
anche loro e il lavoro che fanno è una stupidità.
(Non importa: le donne verranno a scaldarci
di un calore che ancora domani sapremo cos’è).
Cesare Pavese
* * *
Fine della fantasia
Questo corpo mai più ricomincia. A toccargli le occhiaie
uno sente che un mucchio di terra è più vivo,
chè la terra, anche all’alba, non fa che tacere in se stessa.
Ma un cadavere è un resto di troppi risvegli.
Non abbiamo che questa virtù: cominciare
ogni giorno la vita – davanti alla terra,
sotto un cielo che tace – attendendo un risveglio.
Si stupisce qualcuno che l’alba sia tanta fatica;
di risveglio in risveglio un lavoro è compiuto.
Ma viviamo soltanto per dare in un brivido
al lavoro futuro e svegliare una volta la terra.
E talvolta ci accade. Poi torna a tacere con noi.
Se a sfiorare quel volto la mano non fosse malferma
– viva mano che sente la vita se tocca –
se davvero quel freddo non fosse che il freddo
della terra, nell’alba che gela la terra,
forse questo sarebbe un risveglio, e le cose che tacciono
sotto l’alba, direbbero ancora parole. Ma trema
la mia mano, e di tutte le cose somiglia alla mano
che non muove.
Altre volte svegliarsi nell’alba
era un secco dolore, uno strappo di luce,
ma era pure una liberazione. L’avara parola
della terra era gaia, in un rapido istante,
e morire e ancora tornarci. Ora, il corpo che attende
è un avanzo di troppi risvegli e alla terra non torna.
Non lo dicon nemmeno, le labbra indurite.
Cesare Pavese
* * *
Cattive compagnie
Questo è un uomo che fuma la pipa. Laggiù nello specchio,
ce n’è un altro che fuma la pipa. Si guardano in faccia.
Quello vero è tranquillo perché vede l’altro sorridere.
Prima ho visto altre cose. Su un fondo di fumo
una faccia di donna protesa a sorridere
e un idiota leccarla con gli occhi parlando.
Poi l’idiota, parlando, afferrare anche lui
e strappargli un sogghigno. Un sogghigno da idiota.
E la donna piegarsi e serrare le labbra
come avesse veduto qualcosa di nudo.
Ora, corpi di uomini nudi la donna ne vede
dal mattino alla sera, ma spoglia anche sé
e là sopra lavora, ridendo. E sogghigni ne vede
e ne fa, sul lavoro: anzi, è mezzo lavoro
un sogghigno ben fatto. Ma quando una è lì per scherzare
a parole, ferisce vedere anche l’altro,
che in silenzio ascoltava parlare l’idiota,
lampeggiare lo stesso pensiero brutale.
Donna e idiota sono già ritornati a alitarsi sul volto
– si somigliano un poco le donne e gli idioti –
e la pipa vapora una faccia contratta.
Dentro il fumo è possibile fare una smorfia
e socchiudere gli occhi. La donna ridendo
schiva quello che parla pendendole addosso.
Cesare Pavese
* * *
Piaceri notturni
Anche noi ci fermiamo a sentire la notte
nell’istante che il vento è più nudo: le vie
sono fredde di vento, ogni odore è caduto;
le narici si levano verso le luci oscillanti.
Abbiam tutti una casa che attende nel buio
che torniamo: una donna ci attende nel buio
stesa al sonno: la camera è calda di odori.
Non sa nulla del vento la donna che dorme
e respira; il tepore del corpo di lei
è lo stesso del sangue che mormora in noi.
Questo vento ci lava, che giunge dal fondo
delle vie spalancate nel buio; le luci
oscillanti e le nostre narici contratte
si dibattono nude. Ogni odore è un ricordo.
Da lontano nel buio sbucò questo vento
che s’abbatte in città: giù per prati e colline,
dove pure c’è un erba che il sole ha scaldato
e una terra annerita di umori. Il ricordo
nostro è un aspro sentore, la poca dolcezza
della terra sventrata che esala all’inverno
il respiro del fondo. Si è spento ogni odore
lungo il buio, e in città non ci giunge che il vento.
Torneremo stanotte alla donna che dorme,
con le dita gelate a cercare il suo corpo,
e un calore ci scuoterà il sangue, un calore di terra
annerita di umori: un respiro di vita.
Anche lei si è scaldata nel sole e ora scopre
nella sua nudità la sua vita più dolce,
che nel giorno scompare, e ha sapore di terra.
Cesare Pavese
* * *
Gente che c’è stata
Luna tenera e brina sui campi nell’alba
assassinano il grano.
Sul piano deserto,
qua e là putrefatto (ci vuole tempo
perché il sole e la pioggia sotterrino i morti),
era ancora un piacere svegliarsi e guardare
se la brina copriva anche quelli. La luna
inondava, e qualcuno pensava al mattino
quanto l’erba sarebbe spuntata più verde.
Ai villani che guardano piangono gli occhi.
Per quest’anno al ritorno del sole, se torna,
foglioline bruciate saran tutto il grano.
Trista luna – non sa che mangiare le nebbie,
e le brine al sereno hanno un morso di serpe,
che del verde fa tanto letame. Ne han dato letame
alla terra; ora torna in letame anche il grano,
e non serve guardare, e sarà tutto arso,
putrefatto. È un mattino che toglie ogni forza
solamente svegliarsi e girare da vivi
lungo i campi.
Vedranno più tardi spuntare
qualche timido verde sul piano deserto,
sulla tomba del grano, e dovranno lottare
a ridurre anche quello in letame, bruciando.
Perché il sole e la pioggia proteggono solo le erbacce
e la brina, toccato che ha il grano, non torna.
Cesare Pavese
* * *
Paternità
Fantasia della donna che balla, e del vecchio
che è suo padre e una volta l’aveva nel sangue
e l’ha fatta una notte, godendo in un letto, bel nudo.
Lei s’affretta per giungere in tempo a svestirsi,
e ci sono altri vecchi che attendono. Tutti
le divorano, quando lei salta a ballare, la forza
delle gambe on gli occhi, ma i vecchi ci tremano.
Quasi nuda è la giovane. E i giovani guardano
con sorrisi, e qualcuno vorrebbe essere nudo.
Sembran tutti suo padre i vecchiotti entusiasti
e son tutti, malfermi, un avanzo di corpo
che ha goduto altri corpi. Anche i giovani un giorno
saran padri, e la donna è per tutti una sola.
È accaduto in silenzio. Una gioia profonda
prende il buio davanti alla giovane viva.
Tutti i corpi non sono che un corpo, uno solo
che si muove inchiodando gli sguardi di tutti.
Questo sangue, che scorre le membra diritte
della giovane, è il sangue che gela nei vecchi;
e suo padre che fuma in silenzio, a scaldarsi,
lui non salta, ma ha fatto la figlia che balla.
C’è un sentore e uno scatto nel corpo di lei
che è lo steso nel vecchio, e nei vecchi. In silenzio
fuma il padre e l’attende che ritorni, vestita.
Tutti attendono, giovani e vecchi, e la fissano;
e ciascuno, bevendo da solo, ripenserà a lei.
Cesare Pavese
* * *
Disciplina antica
Gli ubriachi non sanno parlare alle donne
e si sono sbandati; nessuno li vuole.
Vanno adagio per strada, la strada e i lampioni
non han fine. Qualcuno fa i giri più larghi:
ma non c’è da temere, domani ritornano a casa.
L’ubriaco che sbanda, si crede con donne
– i lampioni son sempre gli stessi e le donne, di notte,
sono sempre le stesse –: nessuna lo ascolta.
L’ubriaco ragione e le donne non lo vogliono.
Queste donne che ridono sono il discorso che fa:
perché ridono tanto le donne o, se piangono, gridano?
L’ubriaco vorrebbe una donna ubriaca
che ascoltasse sommessa. Ma quelle lo assordano
«Per avere sto figlio, bisogna passare da noi».
L’ubriaco si stringe a un compagno ubriaco,
che stasera è suo figlio, non nato da quelle.
Come può una donnetta che piange e che sgrida
fargli un figlio compagno? Se quello è ubriaco,
non ricorda le donne nel passo malfermo,
e i due avanzano in pace. Il figliolo che conta
non è nato di donna – sarebbe una donna
anche lui –. Lui cammina col padre e ragiona:
i lampioni gli durano tutta la notte.
Cesare Pavese
* * *
Indisciplina
L’ubriaco si lascia alle spalle le case stupite.
Mica tutti alla luce del sole si azzardano
a passare ubriachi. Traversa tranquillo la strada,
e potrebbe infilarsi nei muri, chè i muri ci stanno.
Solo un cane trascorre a quel modo, ma un cane si ferma
ogni volta che sente la cagna e la fiuta con cura.
L’ubriaco non guarda nessuno, nemmeno le donne.
Per la strada la gente, stravolta a guardarlo, non ride
e non vuole che sia l’ubriaco, ma i molti che inciampano
per seguirlo con gli occhi, riguardano innanzi
imprecando. Passato che c’è l’ubriaco,
tutta quanta la strada si muove più lenta
nella luce del sole. Qualcuno che corre
come prima, è qualcuno che non sarà mai l’ubriaco.
Gli altri fissano, senza distinguere, il cielo e le case
che continuano a esserci, se anche nessuno li vede.
L’ubriaco non vede né case né cielo,
ma li sa, perché a passo malfermo percorre uno spazio
netto come le strisce di cielo. La gente impacciata
non comprende più a cosa ci stiano le case,
e le donne non guardano gli uomini. Tutti
hanno come paura che a un tratto la voce
rauca scoppi a cantare e li segua nell’aria.
Ogni casa ha una porta, ma è inutile entrarci.
L’ubriaco non canta, ma tiene una strada
dove l’unico ostacolo è l’aria. Fortuna
che di là non c’è il mare, perché l’ubriaco
camminando tranquillo entrerebbe anche in mare
e, scomparso, terrebbe sul fondo lo stesso cammino.
Fuori, sempre, la luce sarebbe la stessa.
Cesare Pavese
* * *
Mediterranea
Parla poco l’amico e quel poco è diverso.
Val la pena incontrarlo un mattino di vento?
Di noi due uno, all’alba, ha lasciato una donna.
Si potrebbe discorrere del vento umidiccio,
della calma o di qualche passante, guardando la strada;
ma nessuno comincia. L’amico è lontano
e a fumare non pensa. Non guarda.
Fumava
anche il nero, un mattino, che insieme vedemmo
fisso, in piedi, nell’angolo a bere quel vino
– fuori il mare aspettava. Ma il rosso del vino
e la nuvola vaga non erano suoi:
non pensava ai sapori. Neanche il mattino
non pareva un mattino di quelli dell’alba;
era un giorno monotono fuori dei giorni
per il nero. L’idea di una terra lontana
gli faceva da sfondo. Ma lui non quadrava.
C’era donne per strada e una luce più fresca,
e il sentore del mare correva le vie.
Noi, nemmeno le donne o girare: bastava
star seduti e ascoltare la vita e pensare che il mare
era là, sotto il sole ancor fresco di sonno.
Donne bianche passavano, nostre, sul nero
che nemmeno abbassava lo sguardo alle mani
troppo fosche, e nemmeno muoveva il respiro.
Avevamo lasciato una donna, e ogni cosa
sotto l’alba sapeva di nostro possesso:
calma, strade e quel vino.
Stavolta i passanti
mi distraggono e più non ricordo l’amico
che nel vento bagnato si è messo a fumare,
ma non pare che goda.
Tra poco mi chiede:
lo ricordo quel nero che fumava e beveva?
Cesare Pavese
* * *
Disciplina
I lavori cominciano all’alba. Ma noi cominciamo
un po’ prima dell’alba a incontrare noi stessi
nella gente che va per strada. Ciascuno ricorda
di esser solo e aver sonno, scoprendo i passanti
radi – ognuno trasogna fra sé,
tanto sa che nell’alba spalancherà gli occhi.
Quando viene il mattino ci trova stupiti
a fissare il lavoro che adesso comincia.
Ma non siamo più soli e nessuno più ha sonno
e pensiamo con calma i pensieri del giorno
fino a dare in sorrisi. Nel sole che torna
siam tutti convinti. Ma a volte un pensiero
meno chiaro – un sogghigno – ci coglie improvviso
e torniamo a guardare come prima del sole.
La città chiara assiste ai lavori e ai sogghigni.
Nulla può disturbare il mattino. Ogni cosa
può accadere e ci basta di alzare la testa
dal lavoro e guardare. Ragazzi scappati
che non fanno ancor nulla camminano in strada
e qualcuno anche corre. Le foglie dei viali
gettan ombre per strada e non manca che l’erba,
tra le case che assistono immobili. Tanti
sulla riva del fiume si spogliano al sole.
La città ci permette di alzare la testa
a pensarci, e sa bene che poi la chiniamo.
Cesare Pavese
* * *