Giovanni Pascoli – Canti di Castelvecchio (Parte 1/4)

CANTI DI CASTELVECCHIO

di Giovanni Pascoli

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1. La poesia

I

Io sono una lampada ch’arda

soave!

la lampada, forse, che guarda,

pendendo alla fumida trave,

la veglia che fila;

e ascolta novelle e ragioni

da bocche

celate nell’ombra, ai cantoni,

là dietro le soffici rócche

che albeggiano in fila:

ragioni, novelle, e saluti

d’amore, all’orecchio, confusi:

gli assidui bisbigli perduti

nel sibilo assiduo dei fusi;

le vecchie parole sentite

da presso con palpiti nuovi,

tra il sordo rimastico mite

dei bovi:

II

la lampada, forse, che a cena

raduna;

che sboccia sul bianco, e serena

su l’ampia tovaglia sta, luna

su prato di neve;

e arride al giocondo convito;

poi cenna,

d’un tratto, ad un piccolo dito,

là, nero tuttor della penna

che corre e che beve:

ma lascia nell’ombra, alla mensa,

la madre, nel tempo ch’esplora

la figlia più grande che pensa

guardando il mio raggio d’aurora:

rapita nell’aurea mia fiamma

non sente lo sguardo tuo vano;

già fugge, è già, povera mamma,

lontano!

III

Se già non la lampada io sia,

che oscilla

davanti a una dolce Maria,

vivendo dell’umile stilla

di cento capanne:

raccolgo l’uguale tributo

d’ulivo

da tutta la villa, e il saluto

del colle sassoso e del rivo

sonante di canne:

e incende, il mio raggio, di sera,

tra l’ombra di mesta viola,

nel ciglio che prega e dispera,

la povera lagrima sola;

e muore, nei lucidi albori,

tremando, il mio pallido raggio,

tra cori di vergini e fiori

di maggio:

IV

o quella, velata, che al fianco

t’addita

la donna più bianca del bianco

lenzuolo, che in grembo, assopita,

matura il tuo seme;

o quella che irraggia una cuna

– la barca

che, alzando il fanal di fortuna,

nel mare dell’essere varca,

si dondola, e geme -;

o quella che illumina tacita

tombe profonde – con visi

scarniti di vecchi; tenaci

di vergini bionde sorrisi;

tua madre!… nell’ombra senz’ore,

per te, dal suo triste riposo,

congiunge le mani al suo cuore

già róso! –

V

Io sono la lampada ch’arde

soave!

nell’ore più sole e più tarde,

nell’ombra più mesta, più grave,

più buona, o fratello!

Ch’io penda sul capo a fanciulla

che pensa,

su madre che prega, su culla

che piange, su garrula mensa,

su tacito avello;

lontano risplende l’ardore

mio casto all’errante che trita

notturno, piangendo nel cuore,

la pallida via della vita:

s’arresta; ma vede il mio raggio,

che gli arde nell’anima blando:

riprende l’oscuro viaggio

cantando.

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2. La partenza del boscaiolo

La scure prendi su, Lombardo,

da Fiumalbo e Frassinoro!

Il vento ha già spiumato il cardo,

fruga la tua barba d’oro.

Lombardo, prendi su la scure,

da Civago e da Cerù:

è tempo di passar l’alture:

tient’a su! tient’a su! tient’a su!

Più fondo scavano le talpe

nelle prata in cui già brina.

E` tempo che tu passi l’Alpe,

ché la neve s’avvicina.

Le talpe scavano più fondo.

Vanno più alte le gru.

Fa come queste, e va pel mondo:

tient’a su! tient’a su! tient’a su!

Per le faggete e l’abetine,

dalle fratte e dal ruscello,

quel canto suona senza fine,

chiaro come un campanello.

Per l’abetine e le faggete

canta, ogni ora ogni dì più,

la cinciallegra, e ti ripete:

tient’a su! tient’a su! tient’a su!

Di bosco è come te, la cincia:

campa su la macchia anch’essa.

Sa che, col verno che comincia,

ti finisce la rimessa.

La cincia è come te, di bosco:

sa che pane non n’hai più.

Va dove n’ha rimesso il Tosco:

tient’a su! tient’a su! tient’a su!

Le gemme qua e là col becco

picchia: anch’essa è taglialegna.

Nel bosco è un picchierellar secco

della cincia che t’insegna.

Col becco qua e là le gemme

picchia al mo’ che picchi tu.

Va, taglialegna, alle maremme…

tient’a su! tient’a su! tient’a su!

Ha il nido qua e là nei buchi

d’ischie o d’olmi, ove gli garba;

e pensa forse a que’ tuoi duchi,

grandi, dalla lunga barba.

Nei buchi erbiti dove ha il nido,

pensa al gran tempo che fu;

e getta ancora il vecchio grido:

tient’a su! tient’a su! tient’a su!

Un’azza è quella con cui squadri

là, nel verno, il pino e il cerro;

con cui picchiavano i tuoi padri

sopra i grandi elmi di ferro.

Tu squadri i tronchi, ora; con l’azza

butti le foreste giù.

Va ora senza più corazza…

tient’a su! tient’a su! tient’a su!

Rimane nella valle il canto.

Sono ormai, le cincie, sole.

La scure dei lombardi intanto

lassù brilla contro al sole.

E sempre il canto che rimane,

giunge in alto alla tribù,

che parte a guadagnarsi il pane:

tient’a su! tient’a su! tient’a su!

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3. L’uccellino del freddo

Viene il freddo. Giri per dirlo

tu, sgricciolo, intorno le siepi;

e sentire fai nel tuo zirlo

lo strido di gelo che crepi.

Il tuo trillo sembra la brina

che sgrigiola, il vetro che incrina…

trr trr trr terit tirit…

Viene il verno. Nella tua voce

c’è il verno tutt’arido e tecco.

Tu somigli un guscio di noce,

che ruzzola con rumor secco.

T’ha insegnato il breve tuo trillo

con l’elitre tremule il grillo…

trr trr trr terit tirit…

Nel tuo verso suona scrio scrio,

con piccoli crepiti e stiocchi,

il segreto scricchiolettio

di quella catasta di ciocchi.

Uno scricchiolettio ti parve

d’udirvi cercando le larve…

trr trr trr terit tirit…

Tutto, intorno, screpola rotto.

Tu frulli ad un tetto, ad un vetro.

Così rompere odi lì sotto,

così screpolare lì dietro.

Oh! lì dentro vedi una vecchia

che fiacca la stipa e la grecchia…

trr trr trr terit tirit…

Vedi il lume, vedi la vampa.

Tu frulli dal vetro alla fratta.

Ecco un tizzo soffia, una stiampa

già croscia, una scorza già scatta.

Ecco nella grigia casetta

l’allegra fiammata scoppietta…

trr trr trr terit tirit…

Fuori, in terra, frusciano foglie

cadute. Nell’Alpe lontana

ce n’è un mucchio grande che accoglie

la verde tua palla di lana.

Nido verde tra foglie morte,

che fanno, ad un soffio più forte…

trr trr trr terit tirit…

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4. Il compagno dei taglialegna

I

Nel bosco, qua e là, lombardi

sono taciti al lavoro.

Dall’alba s’ode sino a tardi

sci e sci e sci e sci

E` oltre mare l’Alpe loro,

mare, donde nasce il dì.

II

A due a due: l’uno tra il vento,

l’altro, inginocchiato in faccia.

Da basso il vecchio bianco e scento,

in alto la gioventù.

E forza con le forti braccia!

Su e giù, e su e giù.

III

Con loro c’è il pittiere solo,

ora in terra, ora sul ramo.

Fa un salto, un frullo, un giro, un volo;

molleggia, più qui, più lì:

e fa sentire il suo richiamo

tra quel sci e sci e sci

IV

Il Santo aveva da piombare

un bel toppo di cipresso.

Maria restava al focolare

che dava latte a Gesù.

Ora il pittiere era li presso.

Disse il Santo: – Vien qui tu! –

V

Tuffò la spugna il Santo, ed ecco

tinse di sinopia il filo.

– Un capo tieni tu col becco –

disse al pittiere: – costì! –

Maria non più dal dolce asilo

ora udiva sciscisci

VI

E’ sdipanava col girello,

zitto, il filo per la trave.

L’aveva teso già bel bello,

stava per batterlo su…

Ma ecco si sentì: AVE!

Era Maria con Gesù.

VII

Il pittiere si voltò netto…

Torto venne il segno rosso.

La spugna gli gettò nel petto

San Giuseppe; e fu così

che, diventato pettirosso,

quando sente sciscisci

VIII

vien sempre, gira intorno al toppo,

guarda e frulla, guarda e vola;

ma ora non s’accosta troppo,

ch’ora non si fida più:

e col suo canto ti consola,

povera esule tribù!

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5. “The hammerless gun”

To the children Percy and Valente de Bosis

Dunque un hammerless! un… hammerless! (dono

del vostro babbo, o Percy, o Valentino;

del nostro Adolfo, il sapiente, il buono

simposiarco)… O montanine belle,

lo vedrete il maestro di latino!

sì, lo vedrete il pedagogo imbelle!

E lungamente mi sorriderete,

quando venite ai Vespri a questa Cura

di San Nicola. Un hammerless! Sapete?

che non ha cani: a triplice chiusura.

“Bello, ma dica: quello del Fusari…”

“Questo è un hammerless!” “Quello non ha cani”.

“Questo è inglese!” Ah! inghilese! “Di Field, cari!”

Tacciono: io regno indifferente e cupo.

“Codeste selve batterò domani…”

tra me dico, a voce alta. “In bocca al lupo!”

Ecco l’alba (tra selve aride i fossi

vanno col fumo di vaporiere),

piena d’un tintinnìo di pettirossi,

cui risponde un tac tac di capinere…

Su la nebbia che fuma dal sonoro

Serchio, leva la Pania alto la fronte

nel sereno: un aguzzo blocco d’oro,

su cui piovano petali di rose

appassite. Io che l’amo, il vecchio monte,

gli parlo ogni alba, e molte dolci cose

gli dico:

LA PANIA

O monte, che regni tra il fumo

del nembo, e tra il lume degli astri,

tu nutri nei poggi il profumo

di timi, di mente e mentastri.

Tu pascoli le api, o gigante:

tu meni nei borri profondi

la piccola greggia ronzante.

Sei grande, sei forte: e dai cavi

tuoi massi tu gemi, tu grondi

del limpido flutto dei favi.

Sei buono tu, grande tra i grandi:

né spregi la nera capanna.

Al pio boscaiolo tu mandi

sovente la ricca tua manna.

Gli mandi un tuo sciame, che scende

giù giù per la valle remota,

qual tremulo nuvolo, e splende.

Lo segue un tumulto canoro;

ché timpani, cembali, crotali

chiamano il nuvolo d’oro. –

Dico: egli ride roseo, ma scorso

il suo minuto, ridoventa azzurro

e grave. Io scendo lungo il Rio dell’Orso,

ne seguo un poco il fievole sussurro.

E me segue un tac tac di capinere,

e me segue un tin tin di pettirossi,

un zisteretetet di cincie, un rererere

di cardellini. Giungo dove il greto

s’allarga, pieno di cespugli rossi

di vetrici: il mio luogo alto e segreto.

Giungo: e ne suona qualche frullo, un misto

di gridii, pigolii, scampanellii,

che cessa a un tratto. L’hammerless m’ha visto

un fringuello, che fa: Zitti! sii sii

(sii sii è nella lingua dei fringuelli

quello che hush o still, o Percy, in quella

di mamma: zitti! tacciano i monelli)…

E sento tellterelltelltelltelltell (sai?

tellterelltelltelltell nella favella

dei passeri vuol dire come out! fly!

scappa, boy, c’è il babau!)… Dunque più nulla.

Silenzio. Odo il ruscello che gorgoglia,

e non altro. Il fringuello agile frulla

e, lontano, finc finc… Cade una foglia…

Proprio l’ultima (guardo) d’un querciolo

secco! E` bastato il soffio di quell’ala,

è bastata la molla di quel volo:

eccola giù. Mi siedo sopra il greppo.

Era come una spoglia di cicala

(penso), rimasta a quel non più che un ceppo:

era gialla, era gracile; ma era

l’ultima; che più dì, pendula, tenne…

Come il povero vecchio ora dispera,

vicino al Rio che mormora perenne!

Sono mesto. Perché? Non lo so dire.

Intanto, tra le canne, tra la stipa,

sento un brusire ed uno squittinire,

che dico? un parlottare piano piano.

Ma sì, parlano a me, che dalla ripa

tacito ascolto, il mento su la mano.

Sento:

IL PITTIERE

Tin tin! anche te? che c’invidi

due pippoli e due gremignoli?

tin tin, te che piangi sui nidi

che pìano pìano soli?

Si viene, tu vedi, da bianche

montagne, da boschi d’abeti,

con l’ale, puoi credere, stanche.

Si fa questi bruci, che sono

nei bussoli e negli scopeti…

Sapessi che fame!… Sii buono! –

E poi:

LA CAPINERA

Tac tac! anche te? non rammenti

le sere di quella tua mesta

città? le tue lagrime ardenti?

quel canto d’ignota foresta

tra l’onda di tante campane,

tanti urli di folla, e tra il sordo

fragore di ruote lontane?

Piangevi: e saliva il mio canto,

con l’eco d’antico ricordo,

col suono di nuovo rimpianto. –

E poi:

L’ALLODOLA

Uid uid! anche tu ci fai guerra?

tu che ci assomigli pur tanto,

col nido tra il grano, per terra,

ma sopra le nubi, col canto?

Te rode una cura segreta;

tu cerchi l’oblìo de’ tuoi mali.

Ma sei come tutti, o poeta?

Tu piangi il tuo povero nido

per terra… Ma vieni, ma sali,

ma lancia nel sole il tuo grido! –

Cara allodola! – E dopo? – Dopo? Impugno

l’hammerless e… ritorno via. Si rischia

d’infreddare: gennaio non è giugno.

Tra i ginepri c’è un merlo che mi fischia.

E un forasiepe: – Eh! tu torni… so dove.

Oh! il tuo bel nido, che nemmen ci piove!

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6. Nebbia

Nascondi le cose lontane,

tu nebbia impalpabile e scialba,

tu fumo che ancora rampolli,

su l’alba,

da’ lampi notturni e da’ crolli

d’aeree frane!

Nascondi le cose lontane,

nascondimi quello ch’è morto!

Ch’io veda soltanto la siepe

dell’orto,

la mura ch’ha piene le crepe

di valeriane.

Nascondi le cose lontane:

le cose son ebbre di pianto!

Ch’io veda i due peschi, i due meli,

soltanto,

che dànno i soavi lor mieli

pel nero mio pane.

Nascondi le cose lontane

che vogliono ch’ami e che vada!

Ch’io veda là solo quel bianco

di strada,

che un giorno ho da fare tra stanco

don don di campane…

Nascondi le cose lontane,

nascondile, involale al volo

del cuore! Ch’io veda il cipresso

là, solo,

qui, solo quest’orto, cui presso

sonnecchia il mio cane.

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7. I due girovaghi

Siamo soli. Bianca l’aria

vola come in un mulino.

Nella terra solitaria

siamo in due, sempre in cammino.

Soli i miei, soli i tuoi stracci

per le vie. Non altro suono

che due gridi:

Oggi ci sono

e doman me ne vo…

Stacci!

stacci! Stacci!

Io di qua, battendo i denti,

tu di là, pestando i piedi:

non ti vedo e tu mi senti;

io ti sento, e non mi vedi.

Noi gettiamo i nostri urlacci,

come cani in abbandono

fuor dell’uscio:

Oggi ci sono

e doman me ne vo…

Stacci!

stacci! stacci!

Questa terra ha certe porte,

che ci s’entra e non se n’esce.

E` il castello della morte.

S’ode qui l’erba che cresce:

crescer l’erba e i rosolacci

qui, di notte, al tempo buono:

ma nient’altro…

Oggi ci sono

e doman me ne vo…

Stacci!

stacci! stacci!

C’incontriamo… Io ti derido?!

No, compagno nello stento!

No, fratello! E` un vano grido

che gettiamo al freddo vento.

Né c’è un viso che s’affacci

per dire, Eh! spazzacamino!…

per dire, Oh! quel vecchiettino

degli stacci…

degli stacci!…

stacci! stacci!

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8. Il brivido

Mi scosse, e mi corse

le vene il ribrezzo.

Passata m’è forse

rasente, col rezzo

dell’ombra sua nera

la morte…

Com’era?

Veduta vanita,

com’ombra di mosca:

una ombra infinita,

di nuvola fosca

che tutto fa sera:

la morte…

Com’era?

Tremenda e veloce

come un uragano

che senza una voce

dilegua via vano:

silenzio e bufera:

la morte…

Com’era?

Chi vede lei, serra

né apre più gli occhi.

Lo metton sotterra

che niuno lo tocchi,

gli chieda – Com’era?

rispondi…

com’era? –

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9. L’or di notte

Nelle case, dove ancora

si ragiona coi vicini

presso al fuoco, e già la nuora

porta a nanna i suoi bambini,

uno in collo e due per mano;

pel camino nero il vento,

tra lo scoppiettar dei ciocchi,

porta un suono lungo e lento,

tre, poi cinque, sette tocchi,

da un paese assai lontano:

tre, poi cinque e sette voci,

lente e languide, di gente:

voci dal borgo alle croci,

gente che non ha più niente:

– Fate piano! piano! piano!

Non vogliamo saper nulla:

notte? giorno? verno? state?

Piano, voi, con quella culla!

che non pianga il bimbo… Fate

piano! piano! piano! piano!

Non vogliamo ricordare

vino e grano, monte e piano,

la capanna, il focolare,

mamma, bimbi… Fate piano!

piano! piano! piano! piano!

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10. Notte d’inverno

Il Tempo chiamò dalla torre

lontana… Che strepito! E` un treno

là, se non è il fiume che corre.

O notte! Né prima io l’udiva,

lo strepito rapido, il pieno

fragore di treno che arriva;

sì, quando la voce straniera,

di bronzo, me chiese; sì, quando

mi venne a trovare ov’io era,

squillando squillando

nell’oscurità.

Il treno s’appressa… Già sento

la querula tromba che geme,

là, se non è l’urlo del vento.

E il vento rintrona rimbomba,

rimbomba rintrona, ed insieme

risuona una querula tromba.

E un’altra, ed un’altra. – Non essa

m’annunzia che giunge? – io domando.

– Quest’altra! – Ed il treno s’appressa

tremando tremando

nell’oscurità.

Sei tu che ritorni. Tra poco

ritorni, tu, piccola dama,

sul mostro dagli occhi di fuoco.

Hai freddo? paura? C’è un tetto,

c’è un cuore, c’è il cuore che t’ama

qui! Riameremo. T’aspetto.

Già il treno rallenta, trabalza,

sta… Mia giovinezza, t’attendo!

Già l’ultimo squillo s’inalza

gemendo gemendo

nell’oscurità…

E il Tempo lassù dalla torre

mi grida ch’è giorno. Risento

la tromba e la romba che corre.

Il giorno è coperto di brume.

Quel flebile suono è del vento,

quel labile tuono è del fiume.

E` il fiume ed è il vento, so bene,

che vengono vengono, intendo,

così come all’anima viene,

piangendo piangendo,

ciò che se ne va.

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11. Le ciaramelle

Udii tra il sonno le ciaramelle,

ho udito un suono di ninne nanne.

Ci sono in cielo tutte le stelle,

ci sono i lumi nelle capanne.

Sono venute dai monti oscuri

le ciaramelle senza dir niente;

hanno destata ne’ suoi tuguri

tutta la buona povera gente.

Ognuno è sorto dal suo giaciglio;

accende il lume sotto la trave;

sanno quei lumi d’ombra e sbadiglio,

di cauti passi, di voce grave.

Le pie lucerne brillano intorno,

là nella casa, qua su la siepe:

sembra la terra, prima di giorno,

un piccoletto grande presepe.

Nel cielo azzurro tutte le stelle

paion restare come in attesa;

ed ecco alzare le ciaramelle

il loro dolce suono di chiesa;

suono di chiesa, suono di chiostro,

suono di casa, suono di culla,

suono di mamma, suono del nostro

dolce e passato pianger di nulla.

O ciaramelle degli anni primi,

d’avanti il giorno, d’avanti il vero,

or che le stelle son là sublimi,

conscie del nostro breve mistero;

che non ancora si pensa al pane,

che non ancora s’accende il fuoco;

prima del grido delle campane

fateci dunque piangere un poco.

Non più di nulla, sì di qualcosa,

di tante cose! Ma il cuor lo vuole,

quel pianto grande che poi riposa,

quel gran dolore che poi non duole;

sopra le nuove pene sue vere

vuol quei singulti senza ragione:

sul suo martòro, sul suo piacere,

vuol quelle antiche lagrime buone!

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12. Per sempre!

Io t’odio?!… Non t’amo più, vedi,

non t’amo… Ricordi quel giorno?

Lontano portavano i piedi

un cuor che pensava al ritorno.

E dunque tornai… tu non c’eri.

Per casa era un’eco dell’ieri,

d’un lungo promettere. E meco

di te portai sola quell’eco:

PER SEMPRE!

Non t’odio. Ma l’eco sommessa

di quella infinita promessa

vien meco, e mi batte nel cuore

col palpito trito dell’ore;

mi strilla nel cuore col grido

d’implume caduto dal nido:

PER SEMPRE!

Non t’amo. Io guardai, col sorriso,

nel fiore del molle tuo letto.

Ha tutti i tuoi occhi, ma il viso…

non tuo. E baciai quel visetto

straniero, senz’urto alle vene.

Le dissi: “E a me, mi vuoi bene?”

“Sì, tanto!” E i tuoi occhi in me fisse.

“Per sempre?” le dissi. Mi disse:

“PER SEMPRE!”

Risposi: “Sei bimba e non sai

Per sempre che voglia dir mai!”

Rispose: “Non so che vuol dire?

Per sempre vuol dire Morire…

Sì: addormentarsi la sera:

restare così come s’era,

PER SEMPRE!”

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13. La nonna

Tra tutti quei riccioli al vento,

tra tutti quei biondi corimbi,

sembrava, quel capo d’argento,

dicesse col tremito, bimbi,

sì… piccoli, sì…

E i bimbi cercavano in festa,

talora, con grido giulivo,

le tremule mani e la testa

che avevano solo di vivo

quel povero sì.

, solo; , sempre, dal canto

del fuoco, dall’umile trono;

, per ogni scoppio di pianto,

per ogni preghiera: perdono,

sì… voglio, sì… sì!

, pure al lettino del bimbo

malato… La Morte guardava,

La Morte presente in un nimbo…

La tremula testa dell’ava

diceva sì! sì!

, sempre; sì, solo; le notti

lunghissime, altissime! Nera

moveva, ai lamenti interrotti,

la Morte da un angolo… C’era

quel tremulo ,

quel , presso il letto… E sì, prese

la nonna, la prese, lasciandole

vivere il bimbo. Si tese

quel capo in un brivido blando,

nell’ultimo .

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14. La canzone della granata

I

Ricordi quand’eri saggina,

coi penduli grani che il vento

scoteva, come una manina

di bimbo il sonaglio d’argento?

Cadeva la brina; la pioggia

cadeva: passavano uccelli

gemendo: tu gracile e roggia

tinnivi coi cento ramelli.

Ed oggi non più come ieri

tu senti la pioggia e la brina,

ma sgrigioli come quand’eri

saggina.

II

Restavi negletta nei solchi

quand’ogni pannocchia fu colta:

te, colsero, quando i bifolchi

v’ararono ancora una volta.

Un vecchio ti prese, recise,

legò; ti privò della bella

semenza tua rossa; e ti mise

nell’angolo, ad essere ancella.

E in casa tu resti, in un canto,

negletta qui come laggiù;

ma niuno è di casa pur quanto

sei tu.

III

Se t’odia colui che la trama

distende negli alti solai,

l’arguta gallina pur t’ama,

cui porti la preda che fai.

E t’ama anche senza, ché ai costi

ti sbalza, ed i grani t’invola,

residui del tempo che fosti

saggina, nei campi già sola.

Ma più, gracilando t’aspetta

con ciò che in tua vasta rapina

le strascichi dalla già netta

cucina.

IV

Tu lasci che t’odiino, lasci

che t’amino: muta, il tuo giorno,

nell’angolo, resti, coi fasci

di stecchi che attendono il forno.

Nell’angolo il giorno tu resti,

pensosa del canto del gallo;

se al bimbo tu già non ti presti,

che viene, e ti vuole cavallo.

Riporti, con lui che ti frena,

le paglie ch’hai tolte, e ben più;

e gioia or n’ha esso; ma pena

poi tu.

V

Sei l’umile ancella; ma reggi

la casa: tu sgridi a buon’ora,

mentre impaziente passeggi,

gl’ignavi che dormono ancora.

E quanto tu muovi dal canto,

la rondine è ancora nel nido;

e quando comincia il suo canto,

già ode per casa il tuo strido.

E l’alba il suo cielo rischiara,

ma prima lo spruzza e imperlina,

così come tu la tua cara

casina.

VI

Sei l’umile ancella, ma regni

su l’umile casa pulita.

Minacci, rimproveri; insegni

ch’è bella, se pura, la vita.

Insegni, con l’acre tua cura

rodendo la pietra e la creta,

che sempre, per essere pura,

si logora l’anima lieta.

Insegni, tu sacra ad un rogo

non tardo, non bello, che più

di ciò che tu mondi, ti logori

tu!

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15. La voce

C’è una voce nella mia vita,

che avverto nel punto che muore;

voce stanca, voce smarrita,

col tremito del batticuore:

voce d’una accorsa anelante,

che al povero petto s’afferra

per dir tante cose e poi tante,

ma piena ha la bocca di terra:

tante tante cose che vuole

ch’io sappia, ricordi, sì… sì…

ma di tante tante parole

non sento che un soffio… Zvanî

Quando avevo tanto bisogno

di pane e di compassione,

che mangiavo solo nel sogno,

svegliandomi al primo boccone;

una notte, su la spalletta

del Reno, coperta di neve,

dritto e solo (passava in fretta

l’acqua brontolando, Si beve?);

dritto e solo, con un gran pianto

d’avere a finire così,

mi sentii d’un tratto daccanto

quel soffio di voce… Zvanî

Oh! la terra, com’è cattiva!

la terra, che amari bocconi!

Ma voleva dirmi, io capiva:

– No… no… Di’ le devozioni!

Le dicevi con me pian piano,

con sempre la voce più bassa:

la tua mano nella mia mano:

ridille! vedrai che ti passa.

Non far piangere piangere piangere

(ancora!) chi tanto soffrì!

il tuo pane, prega il tuo angelo

che te lo porti… Zvanî… –

Una notte dalle lunghe ore

(nel carcere!), che all’improvviso

dissi – Avresti molto dolore,

tu, se non t’avessero ucciso,

ora, o babbo! – che il mio pensiero,

dal carcere, con un lamento,

vide il babbo nel cimitero,

le pie sorelline in convento:

e che agli uomini, la mia vita,

volevo lasciargliela lì…

risentii la voce smarrita

che disse in un soffio… Zvanî

Oh! la terra come è cattiva!

non lascia discorrere, poi!

Ma voleva dirmi, io capiva:

– Piuttosto di’ un requie per noi!

Non possiamo nel camposanto

più prendere sonno un minuto,

ché sentiamo struggersi in pianto

le bimbe che l’hanno saputo!

Oh! la vita mia che ti diedi

per loro, lasciarla vuoi qui?

qui, mio figlio? dove non vedi

chi uccise tuo padre… Zvanî?… –

Quante volte sei rivenuta

nei cupi abbandoni del cuore,

voce stanca, voce perduta,

col tremito del batticuore:

voce d’una accorsa anelante

che ai poveri labbri si tocca

per dir tante cose e poi tante;

ma piena di terra ha la bocca:

la tua bocca! con i tuoi baci,

già tanto accorati a quei dì!

a quei dì beati e fugaci

che aveva i tuoi baci… Zvanî!…

che m’addormentavano gravi

campane col placido canto,

e sul capo biondo che amavi,

sentivo un tepore di pianto!

che ti lessi negli occhi, ch’erano

pieni di pianto, che sono

pieni di terra, la preghiera

di vivere e d’essere buono!

Ed allora, quasi un comando,

no, quasi un compianto, t’uscì

la parola che a quando a quando

mi dici anche adesso… Zvanî

+ + +

16. Il sole e la lucerna

I

In mezzo ad uno scampanare fioco

sorse e batté su taciturne case

il sole, e trasse d’ogni vetro il fuoco.

C’era ad un vetro tuttavia, rossastro

un lumicino. Ed ecco il sol lo invase,

lo travolse in un gran folgorìo d’astro.

E disse, il sole: – Atomo fumido! io

guardo, e tu fosti. – A lui l’umile fiamma:

– Ma questa notte tu non c’eri, o dio;

e un malatino vide la sua mamma

alla mia luce, fin che tu sei sorto.

Oh! grande sei, ma non ti vede: è morto! –

II

E poi, guizzando appena:

– Chiedeva te! che tosse!

voleva te! che pena!

Tu ricordavi al cuore

suo le farfalle rosse

su le ginestre in fiore!

Io stavo lì da parte…

gli rammentavo sere

lunghe di veglia e carte

piene di righe nere!

stavo velata e trista,

per fargli il ben non vista. –