Giovanni Pascoli – Canti di Castelvecchio (Parte 3/4)

36. Il gelsomino notturno

E s’aprono i fiori notturni,

nell’ora che penso a’ miei cari.

Sono apparse in mezzo ai viburni

le farfalle crepuscolari.

Da un pezzo si tacquero i gridi:

là sola una casa bisbiglia.

Sotto l’ali dormono i nidi,

come gli occhi sotto le ciglia.

Dai calici aperti si esala

l’odore di fragole rosse.

Splende un lume là nella sala.

Nasce l’erba sopra le fosse.

Un’ape tardiva sussurra

trovando già prese le celle.

La Chioccetta per l’aia azzurra

va col suo pigolìo di stelle.

Per tutta la notte s’esala

l’odore che passa col vento.

Passa il lume su per la scala;

brilla al primo piano: s’è spento…

E` l’alba: si chiudono i petali

un poco gualciti; si cova,

dentro l’urna molle e segreta,

non so che felicità nuova.

37. Il poeta solitario

O dolce usignolo che ascolto

(non sai dove), in questa gran pace

cantare cantare tra il folto,

là, dei sanguini e delle acace;

t’ho presa – perdona, usignolo –

una dolce nota, sol una,

ch’io canto tra me, solo solo,

nella sera, al lume di luna.

E pare una tremula bolla

tra l’odore acuto del fieno,

un molle gorgoglio di polla,

un lontano fischio di treno…

Chi passa, al morire del giorno,

ch’ode un fischio lungo laggiù

riprende nel cuore il ritorno

verso quello che non è più.

Si trova al nativo villaggio,

vi ritrova quello che c’era:

l’odore di mesi-di-maggio

buon odor di rose e di cera.

Ne ronzano le litanie,

come l’api intorno una culla:

ci sono due voci sì pie!

di sua madre e d’una fanciulla.

Poi fatto silenzio, pian piano,

nella nota mia, che t’ho presa,

risente squillare il lontano

campanello della sua chiesa.

Riprende l’antica preghiera,

ch’ora ora non ha perché;

si trova con quello che c’era,

ch’ora ora ora non c’è…

……………………………………

Chi sono? Non chiederlo. Io piango,

ma di notte, perch’ho vergogna.

O alato, io qui vivo nel fango.

Sono un gramo rospo che sogna.

38. La guazza

Laggiù, nella notte, tra scosse

d’un lento sonaglio, uno scalpito

è fermo. Non anco son rosse

le cime dell’Alpi.

Nel cielo d’un languido azzurro,

le stelle si sbiancano appena:

si sente un confuso sussurro

nell’aria serena.

Chi passa per tacite strade?

Chi parla da tacite soglie?

Nessuno. E` la guazza che cade

sopr’aride foglie.

Si parte, ch’è ora, né giorno,

sbarrando le vane pupille;

si parte tra un murmure intorno

di piccole stille.

In mezzo alle tenebre sole,

qualcuna riluce un minuto;

riflette il tuo Sole, o mio Sole;

poi cade: ha veduto.

39. Primo canto

Quando apparisce l’oro nel grano

col verdolino nuovo dei tralci,

e già nell’ore d’ozio il villano

sopra una pietra batte le falci;

dall’aie, dalle prode, dal fimo

che vaporando sente la state,

voi con la gioia del canto primo,

primi galletti, tutti cantate:

Vita da re…!

A tutte l’ore gettate all’aria,

chi di tra i solchi, chi di sui rami,

la vostra voce stridula e varia,

chi, che ripeta, chi, che richiami.

Chi fioco i versi muta e rimuta,

chi strilla quasi lo correggesse:

e l’uno dopo l’altro saluta

la casa, il sole, l’ombra, la mèsse:

Vita da re…!

Galletti arguti, gloria dell’aia

che da due mesi v’ospita e pasce,

ora la vostra vecchia massaia,

quando vi sente, pensa alle grasce:

quando vi sente, pensa ai padroni

il contadino vostro che miete,

e mentre lega manne e covoni,

galletti arguti, con voi ripete:

Vita da re…!

Quando, odorati sempre di lolla,

lasciate i campi dove nasceste,

perché, se un’aspra mano vi sgrolla,

voi vi beccate tra voi le creste?

Lunga è la strada, grave la state,

vi stringe il duro cappio di tozzo:

voi l’uno all’altro rimproverate

quel vostro canto chiuso nel gozzo:

Vita da re…!

Poi nel paese, tra quattro mura,

sotto il barlume forse d’un moggio,

nella cucina tacita e scura

voi ricordate l’aia ed il poggio;

e mentre tutti dormono, e scialba

geme la luce dalle finestre,

come un lamento lungo su l’alba

suona l’antico grido silvestre:

Vita da re…!

40. La canzone del girarrosto

I

Domenica! il dì che a mattina

sorride e sospira al tramonto!…

Che ha quella teglia in cucina?

che brontola brontola brontola…

E` fuori un frastuono di giuoco,

per casa è un sentore di spigo…

Che ha quella pentola al fuoco?

che sfrigola sfrigola sfrigola…

E già la massaia ritorna

da messa;

così come trovasi adorna,

s’appressa:

la brage qua copre, là desta,

passando, frr, come in un volo,

spargendo un odore di festa,

di nuovo, di tela e giaggiolo.

II

La macchina è in punto; l’agnello

nel lungo schidione è già pronto;

la teglia è sul chiuso fornello,

che brontola brontola brontola…

Ed ecco la macchina parte

da sé, col suo trepido intrigo:

la pentola nera è da parte,

che sfrigola sfrigola sfrigola…

Ed ecco che scende, che sale,

che frulla,

che va con un dondolo eguale

di culla.

La legna scoppietta; ed un fioco

fragore all’orecchio risuona

di qualche invitato, che un poco

s’è fermo su l’uscio, e ragiona.

III

E` l’ora, in cucina, che troppi

due sono, ed un solo non basta:

si cuoce, tra murmuri e scoppi,

la bionda matassa di pasta.

Qua, nella cucina, lo svolo

di piccole grida d’impero;

là, in sala, il ronzare, ormai solo,

d’un ospite molto ciarliero.

Avanti i suoi ciocchi, senz’ira

né pena,

la docile macchina gira

serena,

qual docile servo, una volta

ch’ha inteso, né altro bisogna:

lavora nel mentre che ascolta,

lavora nel mentre che sogna.

IV

Va sempre, s’affretta, ch’è l’ora,

con una vertigine molle:

con qualche suo fremito incuora

la pentola grande che bolle.

E` l’ora: s’affretta, né tace,

ché sgrida, rimprovera, accusa,

col suo ticchettìo pertinace,

la teglia che brontola chiusa.

Campana lontana si sente

sonare.

Un’altra con onde più lente,

più chiare,

risponde. Ed il piccolo schiavo

già stanco, girando bel bello,

già mormora, in tavola! in tavola!,

e dondola il suo campanello.

41. L’ora di Barga

Al mio cantuccio, donde non sento

se non le reste brusir del grano,

il suon dell’ore viene col vento

dal non veduto borgo montano:

suono che uguale, che blando cade,

come una voce che persuade.

Tu dici, E` l’ora; tu dici, E` tardi,

voce che cadi blanda dal cielo.

Ma un poco ancora lascia che guardi

l’albero, il ragno, l’ape, lo stelo,

cose ch’han molti secoli o un anno

o un’ora, e quelle nubi che vanno.

Lasciami immoto qui rimanere

fra tanto moto d’ale e di fronde;

e udire il gallo che da un podere

chiama, e da un altro l’altro risponde,

e, quando altrove l’anima è fissa,

gli strilli d’una cincia che rissa.

E suona ancora l’ora, e mi manda

prima un suo grido di meraviglia

tinnulo, e quindi con la sua blanda

voce di prima parla e consiglia,

e grave grave grave m’incuora:

mi dice, E` tardi; mi dice, E` l’ora.

Tu vuoi che pensi dunque al ritorno,

voce che cadi blanda dal cielo!

Ma bello è questo poco di giorno

che mi traluce come da un velo!

Lo so ch’è l’ora, lo so ch’è tardi;

ma un poco ancora lascia che guardi.

Lascia che guardi dentro il mio cuore,

lascia ch’io viva del mio passato;

se c’è sul bronco sempre quel fiore,

s’io trovi un bacio che non ho dato!

Nel mio cantuccio d’ombra romita

lascia ch’io pianga su la mia vita!

E suona ancora l’ora, e mi squilla

due volte un grido quasi di cruccio,

e poi, tornata blanda e tranquilla,

mi persuade nel mio cantuccio:

è tardi! è l’ora! Sì, ritorniamo

dove son quelli ch’amano ed amo.

42. Il viatico

Là, suonano a doppio. Si sente,

qua presso, uno struscio di gente,

e suona suona un campanello

sul dolce mezzodì.

Si sente una lauda che sale

tra il fremito delle cicale

per il sentiero, ove il fringuello

cauto via via zittì.

E passa un branchetto… Son quelli.

Son poveri bimbi in capelli,

poi donne salmeggianti in coro:

O vivo pan del ciel!…

E` un vecchio che parte; e il paese

gli porta qualcosa che chiese,

cantando sotto il cielo d’oro:

O vivo pan del ciel!…

qualcosa che in tanti e tanti anni,

cercando tra gioie ed affanni,

ancora non poté riporre

da portar via con sé.

E gli altri si assidono a mensa,

ma egli ancor cerca, ancor pensa

al niente, al niente che gli occorre,

a un piccolo perché,

nel piccolo passo, ch’è un volo

di mosca, ch’è un attimo solo…

Quel giorno anche per me, campane,

sonate pur così,

quel canto, in quell’ora, s’inalzi,

portatemi, o piccoli scalzi,

portatelo anche a me quel pane,

sul vostro mezzodì.

43. L’imbrunire

Cielo e Terra dicono qualcosa

l’uno all’altro nella dolce sera.

Una stella nell’aria di rosa,

un lumino nell’oscurità.

I Terreni parlano ai Celesti,

quando, o Terra, ridiventi nera;

quando sembra che l’ora s’arresti,

nell’attesa di ciò che sarà.

Tre pianeti su l’azzurro gorgo,

tre finestre lungo il fiume oscuro;

sette case nel tacito borgo,

sette Pleiadi un poco più su.

Case nere: bianche gallinelle!

Case sparse: Sirio, Algol, Arturo!

Una stella od un gruppo di stelle

per ogni uomo o per ogni tribù.

Quelle case sono ognuna un mondo

con la fiamma dentro, che traspare;

e c’è dentro un tumulto giocondo

che non s’ode a due passi di là.

E tra i mondi, come un grigio velo,

erra il fumo d’ogni focolare.

La Via Lattea s’esala nel cielo,

per la tremola serenità.

44. La fonte di Castelvecchio

O voi che, mentre i culmini Apuani

il sole cinge d’un vapor vermiglio,

e fa di contro splendere i lontani

vetri di Tiglio;

venite a questa fonte nuova, sulle

teste la brocca, netta come specchio,

equilibrando tremula, fanciulle

di Castelvecchio;

e nella strada che già s’ombra, il busso

picchia de’ duri zoccoli, e la gonna

stiocca passando, e suona eterno il flusso

della Corsonna:

fanciulle, io sono l’acqua della Borra,

dove brusivo con un lieve rombo

sotto i castagni; ora convien che corra

chiusa nel piombo.

A voi, prigione dalle verdi alture,

pura di vena, vergine di fango,

scendo; a voi sgorgo facile: ma, pure

vergini, piango:

non come piange nel salir grondando

l’acqua tra l’aspro cigolìo del pozzo:

io solo mando tra il gorgoglio blando

qualche singhiozzo.

Oh! la mia vita di solinga polla

nel taciturno colle delle capre!

udir soltanto foglia che si crolla,

cardo che s’apre,

vespa che ronza, e queruli richiami

del forasiepe! Il mio cantar sommesso

era tra i poggi ornati di ciclami

sempre lo stesso;

sempre sì dolce! E nelle estive notti,

più, se l’eterno mio lamento solo

s’accompagnava ai gemiti interrotti

dell’assiuolo,

più dolce, più! Ma date a me, ragazze

di Castelvecchio, date a me le nuove

del mondo bello: che si fa? le guazze

cadono, o piove?

e per le selve ancora si tracoglie,

o fate appietto? ed il metato fuma,

o già picchiate? aspettano le foglie

molli la bruma,

o le crinelle empite ne’ frondai

in cui dall’Alpe è scesa qualche breve

frasca di faggio? od è già l’Alpe ormai

bianca di neve?

Più nulla io vedo, io che vedea non molto

quando chiamavo, con il mio rumore

fresco, il fanciullo che cogliea nel folto

macole e more.

Col nepotino a me venìa la bianca

vecchia, la Matta; e tuttavia la vedo

andare come vaccherella stanca

va col suo redo.

Nella deserta chiesa che rovina,

vive la bianca Matta dei Beghelli

più? desta lei la sveglia mattutina

più, de’ fringuelli?

Essa veniva al garrulo mio rivo

sempre garrendo dentro sé, la vecchia:

e io, garrendo ancora più, l’empivo

sempre la secchia.

Ah! che credevo d’essere sua cosa!

Con lei parlavo, ella parlava meco,

come una voce nella valle ombrosa

parla con l’eco.

Però singhiozzo ripensando a questa

che lasciai nella chiesa solitaria,

che avea due cose al mondo, e gliene resta

l’una, ch’è l’aria.

45. Temporale

E` mezzodì. Rintomba.

Tacciono le cicale

nelle stridule seccie.

E chiaro un tuon rimbomba

dopo uno stanco, uguale,

rotolare di breccie.

Rondini ad ali aperte

fanno echeggiar la loggia

de’ lor piccoli scoppi.

Già, dopo l’afa inerte,

fanno rumor di pioggia

le fogline dei pioppi.

Un tuon sgretola l’aria.

Sembra venuto sera.

Picchia ogni anta su l’anta.

Serrano. Solitaria

s’ode una capinera,

là, che canta… che canta…

E l’acqua cade, a grosse

goccie, poi giù a torrenti,

sopra i fumidi campi.

S’è sfatto il cielo: a scosse

v’entrano urlando i venti

e vi sbisciano i lampi.

Cresce in un gran sussulto

l’acqua, dopo ogni rotto

schianto ch’aspro diroccia;

mentre, col suo singulto

trepido, passa sotto

l’acquazzone una chioccia.

Appena tace il tuono,

che quando al fin già pare,

fa tremare ogni vetro,

tra il vento e l’acqua, buono,

s’ode quel croccolare

co’ suoi pigolìi dietro.

46. La mia sera

Il giorno fu pieno di lampi;

ma ora verranno le stelle,

le tacite stelle. Nei campi

c’è un breve gre gre di ranelle.

Le tremule foglie dei pioppi

trascorre una gioia leggiera.

Nel giorno, che lampi! che scoppi!

Che pace, la sera!

Si devono aprire le stelle

nel cielo sì tenero e vivo.

Là, presso le allegre ranelle,

singhiozza monotono un rivo.

Di tutto quel cupo tumulto,

di tutta quell’aspra bufera,

non resta che un dolce singulto

nell’umida sera.

E`, quella infinita tempesta,

finita in un rivo canoro.

Dei fulmini fragili restano

cirri di porpora e d’oro.

O stanco dolore, riposa!

La nube nel giorno più nera

fu quella che vedo più rosa

nell’ultima sera.

Che voli di rondini intorno!

che gridi nell’aria serena!

La fame del povero giorno

prolunga la garrula cena.

La parte, sì piccola, i nidi

nel giorno non l’ebbero intera.

Né io… e che voli, che gridi,

mia limpida sera!

Don… Don… E mi dicono, Dormi!

mi cantano, Dormi! sussurrano,

Dormi! bisbigliano, Dormi!

là, voci di tenebra azzurra…

Mi sembrano canti di culla,

che fanno ch’io torni com’era…

sentivo mia madre… poi nulla…

sul far della sera.

47. In viaggio

Si ferma, e già fischia, ed insieme,

tra il ferreo strepito del treno,

si sente una squilla che geme,

là da un paesello sereno,

paesello lungo la via:

Ave Maria…

Un poco, tra l’ansia crescente

della nera vaporiera,

l’addio della sera si sente

seguire come una preghiera,

seguire il treno che s’avvia:

Ave Maria…

E, come se voglia e non voglia,

il treno nel partir vacilla:

quel suono ci chiama alla soglia

e alla lampada che brilla,

nella casa, ch’è una badia:

Ave Maria…

Il padre a quel suono rincasa

facendo un passo ad ogni tocco;

e subito all’uscio di casa

trova il visino del suo cocco,

del più piccino che ci sia…

Ave Maria…

Si chiude, la casa; e s’appanna

d’un tratto il vocerìo che c’è;

si chiude, ristringe, accapanna,

per parlare tra sé e sé;

e saluta la compagnia…

Ave Maria…

O, tinta d’un lieve rossore,

casina che sorridi al sole!

per noi c’è la notte con l’ore

lunghe lunghe, con l’ore sole,

con l’ore di malinconia…

Ave Maria…

Il treno già vola e ci porta

sbuffando l’alito di fuoco;

e ancora nell’aria più smorta

ci giunge quell’addio più fioco,

dal paese che fugge via:

Ave Maria…

E cessa. Ma uno che vuole

velar gli occhi, pensar lontano,

tra gemiti e strilli e parole,

tra il frastuono or tremolo or piano,

ode il suono che non s’oblia:

Ave Maria…

Con l’uomo che va nella notte,

tra gli aspri urli, i lunghi racconti

del treno che corre per grotte

di monti, sopra lenti ponti,

vien nell’ombrìa la voce pia:

Ave Maria…

48. Maria

Ti splende su l’umile testa

la sera d’autunno, Maria!

Ti vedo sorridere mesta

tra i tocchi d’un’Avemaria:

sorride il tuo gracile viso;

né trova, il tuo dolce sorriso,

nessuno:

così, con quelli occhi che nuovi

si fissano in ciò che tu trovi

per via; che nessuno ti sa;

quelli occhi sì puri e sì grandi,

coi quali perdoni, e domandi

pietà:

quelli occhi sì grandi, sì buoni,

sì pii, che da quando li apristi,

ne diedero dolci perdoni!

ne sparsero lagrime tristi!

quelli occhi cui nulla mai diede

nessuno, cui nulla mai chiede

nessuno!

quelli occhi che toccano appena

le cose! due poveri a cena

dal ricco, ignorati dai più;

due umili in fondo alla mensa,

due ospiti a cui non si pensa

già più!

49. La mia malattia

I

L’altr’anno, ero malato, ero lontano,

a Messina: col tifo. All’improvviso

udivo spesso camminar pian piano,

a piedi scalzi. Era Maria, col viso

tutt’ombra, dove un mio levar di ciglia

gettava sempre un lampo di sorriso.

A volte erano i morti, la famiglia

nostra… Io pian piano mi sentia toccare

il polso, e sussurrare: – Oh! la mia figlia!

sola! con nulla! con di mezzo il mare! –

II

Quelle sere, Maria non, come suole,

pregava al mio guanciale, co’ suoi lenti

bisbigli, con le sue dolci parole:

dolci parole dette per gli assenti

al buon Gesù, dette per me: preghiere

perché in pace riposi e m’addormenti.

Prega, e vuol ch’io ripeta. Quelle sere,

nulla, o diceva: “Dormi, ch’hai la voce

debole; è meglio ora per te tacere,

dormire; fatti il segno della croce”.

III

Io pensava: – Ma dunque ella non crede

più, tanto? Che sarà della sua vita,

un vilucchio avvoltato alla sua fede? –

E pensando, alla mente illanguidita

io richiamava le devozioni

già dette con le mie tra le sue dita.

E ricordai che tra quei fiochi suoni

che a un Angiolo bisbiglia che li porti

su, c’era il Requiem; c’era anche: Vi doni

nostro Signore eterna pace, o morti!

IV

Morti che amate, morti che piangete,

morti che udivo camminar pian piano

nella mia, nella sua stanza a parete:

che sempre in dubbio d’aspettare in vano

sempre aspettate con pupille fisse,

come il mendico, tesa ch’ha la mano,

quelle preghiere; oh! sì, Maria le disse,

quelle preghiere, ma da sé, ma ebbre

di pianto, ma di là… che non sentisse

suo fratello, che aveva alta la febbre…

50. Un ricordo

Andavano e tornavano le rondini,

intorno alle grondaie della Torre,

ai rondinotti nuovi. Era d’agosto.

Avanti la rimessa era già pronto

il calessino. La cavalla storna

calava giù, seccata dalle mosche,

l’un dopo l’altro tutti quattro i tonfi

dell’unghie su le selci della corte.

Era un dolce mattino, era un bel giorno:

di San Lorenzo. Il babbo disse: “Io vo”.

E in un gruppo tubarono le tortori.

Esse là nella paglia erano in cova.

Tra quel hu hu, mia madre disse: “Torna

prestino”. “Sai che volerò!” “Non correr

tanto: la tua stornella è appena doma”.

“Eh! mi vuol bene!” “Addio”. “Addio”. “Vai solo?

non prendi Jên?” “Aspetto quel signore

da Roma…” “E` vero. Ti verremo incontro

a San Mauro. Io sarò sotto la Croce.

Tu ci vedrai passando”. “Io vi vedrò”.

E Margherita, la sorella grande,

di sedici anni, disse adagio: “Babbo…”

“Che hai?” “Ho, che leggemmo nel giornale

che c’è gente che uccide per le strade…”

Chinò mio padre tentennando il capo

con un sorriso verso lei. Mia madre

la guardò coi suoi cari occhi di mamma,

come dicendo: A cosa puoi pensare!

E le rondini andavano e tornavano,

ai nidi, piene di felicità.

Mio padre palpeggiò la sua cavalla

che l’ammusò con cenno familiare.

Riguardò le tirelle e il sottopancia,

e raccolte le briglie, calmo e grave,

si volse ancora a dire: “Addio!” Mia madre

s’appressò con le due bimbe per mano:

la più piccina a lui toccò la mazza.

Egli teneva il piede sul montante.

E in un gruppo le tortori tubarono,

e si sentì: “Papà! Papà! Papà!”

E un poco presa egli sentì, ma poco

poco, la canna come in un vignuolo,

come v’avesse cominciato il nodo

un vilucchino od una passiflora.

Sì: era presa in una mano molle,

manina ancora nuova, così nuova

che tutto ancora non chiudeva a modo.

Era la bimba che vi avea ravvolte,

come poteva, le sue dita rosa,

e che gemeva: “No! no! no! no! no!”

Mio padre prese la sua bimba in collo,

col suo gran pianto ch’era di già roco;

e la baciò, la ribaciò negli occhi

zuppi di già per non so che martoro.

“Non vuoi che vada?” “No!” “Perché non vuoi?”

“No! no!” “Ti porto tante belle cose!”

“No! no!” La pose in terra: essa di nuovo

stese alla canna le sue dita rosa,

gli mise l’altro braccio ad un ginocchio:

“No! no! papà! no! no! papà! no! no!”

Non s’udì che quel pianto e quei singulti

nel tranquillo mattino tutto luce.

Più non raspava i ciottoli con l’unghia

la cavalla, e volgea la testa smunta

alla bimba. E le tortori, hu, hu!

Povera bimba! non avea compiuti

due anni, e ancor dormiva nella culla.

Sapea di latte il suo gran pianto lungo:

assomigliava ad un vagir notturno.

Mio padre disse: “Non partirò più”.

Jên, a un suo cenno, menò fuor del muro

la cavalla, aspettando ad un altro uscio.

Lontanò essa con un ringhio acuto.

E mio padre baciò la creatura,

e le disse: “Non vado: entro; mi muto,

e sto con te. Perché tu sia sicura,

prendi la canna”. Rabbrividì tutta

essa, come un uccello quando arruffa

le piume; le spianò; poi con le due

braccia abbracciò la canna di bambù.

Ed aspettò. Aspetta ancora. Il babbo

non tornò più. Non si rivide a casa.

Lo portarono a sera in camposanto,

lo stesero in un tavolo di marmo,

dissero, oh! sì! dissero ch’era sano,

e che avrebbe vissuto anche molti anni.

Ma uno squarcio aveva egli nel capo,

ma piena del suo sangue era una mano.

Maria! Maria! quel pegno di tuo padre,

ciò che di lui rimase, ove sarà?

Sorella, a volte penso che tu l’abbia,

che tu lo tenga ancora fra le braccia.

Così mi pare a volte, che ti guardo

e tu non vedi, ché tu stai pregando.

Tieni le braccia in croce, un poco lasse;

e tieni ancora gli occhi fissi in alto.

Stai come quando ti lasciò tuo padre;

sicura, come allora. Ma una lagrima

ancora scorre a te, di quelle, e il labbro

balbetta ancora, sì: “Papà! Papà!”

51. Il nido di “farlotti”

Tra gli autunnali giorni ricorre

al mio pensiero sempre quel giorno,

che dal palazzo, dalla gran Torre,

facemmo un tanto mesto ritorno:

ritorno tanto mesto, sebbene

fosse alla bianca nostra casina

che aveva ai piedi tante verbene

e su pei muri tanta cedrina;

dov’era, dietro siepi riquadre

di biancospino, dietro un cancello

verde, ciò ch’era della mia madre,

nostro, ma poco; poco, ma bello.

Io non credeva, fuori che in sogno,

fossero altrove gigli e giaggioli,

e il dolce odore del catalogno

e gli agri pomi de’ lazzeruoli:

e ch’altro al mondo fosse che il troppo,

dopo le canne fitte dell’orto

e la mimosa, ch’è morta, e il pioppo,

ch’è morto, e l’alto cedro, ch’è morto.

Oh! sì, com’era mesto il ritorno,

e sì, la sera com’era mesta,

ben ch’in San Mauro fosse, quel giorno,

un’argentina romba di festa!

Ma morto il babbo da più d’un mese,

non c’era posto per i suoi nati

più, nella Torre, sì che al paese

ritornavamo come scacciati.

Noi s’era in otto, nove con essa,

nella carrozza, piccoli, stretti

a lei che stava bianca e dimessa

tra lo scoppiare dei mortaretti;

che si vedeva pallida e magra

tra il rintoccare delle campane.

Noi si tornava per una sagra

senza più padre senza più pane.

E disse un uomo; disse: e l’udiva

ella e ne pianse le lunghe notti

e ne fu trista fin che fu viva,

un anno: “Un nido, ve’, di farlotti!”

Verlette, quando v’odo cantare,

nunzie che il caldo viene e la state,

nelle mattine tacite e chiare,

nelle opaline lunghe serate;

Oh! – dico – il nido fatto tra i rovi.

il vostro nido messo tra il rusco,

oh! che il villano non ve lo trovi,

il molle nido pieno di musco!

che rozzo è fuori, radiche e stecchi,

ma dentro è tutto lana e lichene,

dove d’un solo tratto sei becchi

s’aprono a un solo grillo che viene!

viene nel becco vostro, che intanto

state sur una vetta vicine

spiando il cibo raro e col canto

cullando il nido ch’è tra le spine!

Oh! voi non, mentre gettate il grido

che salva gli altri, predi l’astore;

né il bruco e il grillo manchi nel nido,

né il calduccino di sotto il cuore!

E quando viene Santa Maria

che rende all’uomo l’arma sua lunga,

oh! la covata vostra già sia

buona a volare; ch’e’ non vi giunga!

Siano volastri per mezzo agosto,

né con la mano l’uomo li pigli

dopo un voletto, poco discosto

dal nido… come, madre, i tuoi figli!

E come, o madre, quella parola

ti si confisse tanto nel petto,

che assomigliava la famigliuola

tua nuda a quella d’un uccelletto?

O madre! o madre! non era vero?

non eran ali dunque le tue?

non anche prese te lo sparviero

lasciando il nido senza voi due?

prima con otto bocche, poi sette,

sei, cinque… aperte sempre al tuo volo,

aperte invano… sì, di verlette:

nido fra i duri triboli solo.

Tra quei che il falco non ghermì poi,

o l’uomo vile, madre mia santa,

tra quei farlotti piccoli tuoi,

uno non vola dunque? non canta?

non era vero vero? le prime

arie non canta, semplici e tristi?

non vola, in alto, poi dalle cime

scende là dove tu gli sparisti?

52. Il sogno della vergine

I

La vergine dorme. Ma lenta

la fiamma del puro alabastro

le immemori palpebre tenta;

bussa alla chiusa anima. Il lume

vacilla nell’ombra, come astro

di vita tra un velo di brume.

Echeggia nell’anima, invasa

dal sonno, quel battere, e pare

destare la tacita casa.

La casa si desta: un sorriso

s’accende, si muove ed appare

via via qua e là per il viso…

La vergine sogna: ed un rivo

di sangue stupisce le intatte

sue vene, d’un sangue più vivo,

più tiepido: come di latte…

II

Stupisce le placide vene

quel flutto soave e straniero,

quel rivolo, labile, lene,

d’ignota sorgente, che sembra

che inondi di blando mistero

le pie sigillate sue membra.

Le gracili membra non sanno

lo schianto, non sanno l’amplesso:

nel cuore, sì, forse un affanno

c’è, l’ombra di un palpito, l’orma

d’un grido: il respiro sommesso

d’un vago ricordo che dorma;

che dorma nel cuore ed esali

nel cuore il suo sonno romito.

La vergine sogna: ecco un alito

piccolo, accanto… un vagito…

III

Un figlio! che posa nel letto

suo vergine! e cerca assetato

le fonti del vergine petto!

O figlio d’un intimo riso

dell’anima! o fiore non nato

da seme, e sbocciato improvviso!

Tu fiore non retto da stelo,

tu luce non nata da fuoco,

tu simile a stella del cielo;

dal cielo dell’anima, ov’ora

sbocciasti improvviso, tra poco

tu dileguerai nell’aurora.

In tanto tu vivi per una

breve ora; in un’anima, in tanto,

di vergine; in quella tua cuna

tu piangi il tuo tacito pianto.

IV

Si dondola dondola dondola

senza rumore la cuna

nel mezzo al silenzio profondo;

così, come tacito al vento,

nel tacito lume di luna,

si dondola un cirro d’argento.

Oh! dormi col tremolìo muto

dell’esile cuna che avesti!

non piangerlo tutto, il minuto

che avesti, dell’esile vita!

nel cuore di mamma non resti

quell’eco di pianto, infinita!

Sorridile, guardala; appressati

a mamma, ch’ormai non ha più,

per vivere un poco ancor essa,

che il poco di fiato ch’hai tu!

V

Il lume inquieto ora salta

guizzando, ora crepita e scende:

s’è spento. Quiete più alta.

Nell’ombra già rara, già scialba

traverso le immobili tende

si sfuma la nebbia dell’alba.

Il fiore improvviso, non sorto

da seme, non retto da stelo…

svanito! Non nato, non morto:

svanito nell’alito chiaro

dell’alba! svanito dal cielo

notturno del sogno! – Cantarono

i galli, rabbrividì l’aria,

s’empì di scalpicci la via;

da lungi squillò solitaria

la voce dell’Avemaria.

53. Il mendico

I

Soletto su l’orlo di un lago

che al rosso tramonto riluce,

v’è un uomo col refe e con l’ago

che cuce

tra l’erica bassa.

E cuce; e nel cielo turchino

già ridono l’aspre civette,

e il lago sul capo suo chino

riflette

qualche ala che passa.

E cuce; e i suoi cenci nell’acqua,

trapunta di tacite bolle,

si specchiano, e l’ombra li sciacqua

con murmure molle.

II

Ma in tanto che, ombrato da un velo,

nell’acqua il lavoro suo fiotta,

tra l’urto dei cirri del cielo

s’è rotta

la tenue gugliata.

Egli alza la testa. Il suo filo

s’è rotto; e si sente dai tufi,

dall’inaccessibile asilo

dei gufi,

la morte che fiata.

E piccolo il sole che muore,

gli appare traverso la cruna

dell’ago. Egli dice nel cuore:

– Ti lodo, Fortuna!

III

Nel mondo a te piacque gettare

tuo figlio, terribile e gaia,

siccome al fanciullo, nel mare,

la ghiaia

che sbalzi su l’onde.

Ma tutto m’hai dato a ch’io viva:

la mano, che regge la croce,

il piede, che mai non arriva,

la voce,

cui niuno risponde.

M’hai dato la dolce speranza

che arretra se il cuore si avvia,

l’immemore cuore che avanza

su nave che scìa.

IV

Ho errato seguendo le foglie

che il vento sospinge per gioco,

sostando non più che alle soglie,

per poco,

tra l’ira dei cani.

Ho errato nel mondo sì bello,

seguìto da un cupo latrato,

tendendo all’oblìo del fratello

mutato

le simili mani.

Son giunto: alla tomba; che trova

contigua la querula cuna,

com’onda, ad ogni attimo nuova,

ritrova la duna.

V

Se a me non fu dato vederti

mai, ora non, avida ancora,

tentando le palpebre inerti,

lavora

la cieca pupilla.

Se non mi porgesti né un sorso

di dolce, le fauci inquiete

non m’arde con vano rimorso

la sete

dell’ultima stilla.

Non vidi che nero, non bebbi

che fiele; ma ingrato non sono:

ti lodo per ciò che non ebbi;

che non abbandono.

VI

Non ebbi il superbo banchetto

tra quelli che aspettano al canto

le miche: e né letto né tetto,

tra tanto

di popolo nudo.

Non verso nell’ultimo istante

la lagrima vile a versarsi:

la prima! la sola! E le tante

ch’io sparsi,

con gli occhi le chiudo.

Io nudo, bussando alle porte,

ti dico, nell’ora che imbruna:

Di dolce sol ebbi la morte;

ma tutto è quest’una!

VII

Io t’amo pel freddo e lo stento,

l’insonnia, il digiuno, l’affanno,

cui devo che senza sgomento,

che fanno

ch’esperto io rimuoia.

Io t’amo perch’ora meschino

non chiedo, felice non rendo;

ma stanco del lungo cammino

discendo

senz’onta di gioia;

discendo laggiù tra le grame

mie genti, nel mondo che tace,

tra gli umili morti di fame

che dormono in pace. –

VIII

Su l’orlo d’un lago nei monti,

fra stridulo ansare di grilli,

sul lago in cui, luna che monti,

scintilli,

c’è un nero, c’è un mucchio

di squallidi cenci e di membra,

c’è un uomo con gli occhi rivolti

nel lago, e che attonito sembra

che ascolti

l’eterno risucchio:

e simile a sogno di nulla,

nell’acqua c’è l’ombra sua bruna,

che appena si dondola e culla

nel lume di luna.

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