Giovanni Pascoli – Canti di Castelvecchio (Parte 4/4)

54. Ov’è?

C’è uno di nuovo stamane

su nella casa solitaria.

Dall’uscio leva il muso il cane,

ne odora la vocina in aria.

Eppure fu notte serena!

né l’uscio sui gangheri appena

ciulì…

Non l’hanno (che dicono?) preso

in una ceppa di castagno!

Stanotte si sarebbe inteso

nel gran silenzio quel suo lagno.

Invece nei prati tranquilli

non c’era che il canto dei grilli:

tri… tri…

Non l’hanno comprato alla fiera,

non l’hanno avuto dal convento.

Stanotte per le vie non c’era

che qualche scalpiccìo del vento;

e intorno alle tacite case

poi sola la voce rimase

del chiù.

Le case eran tacite, chiare

le vie; dormiva il cane all’uscio.

In casa egli dovette entrare,

come il pulcino nel suo guscio!

Cadevano stelle celesti,

brillando… Oh! dal cielo cadesti

pur tu!

Dal cielo! Dal cielo! che piove

la guazza su le dure zolle.

Tu sei caduto, e non sai dove,

e giri l’occhio tutto molle.

Non fu la caduta di nulla!

Ma c’era una morbida culla

per te!

Oh! il mondo in cui oggi ti trovi,

del tuo cielo non t’è più caro!

fai tante rughe! e sempre muovi

la bocca, che ci senti amaro!

Oh! il cielo! il tuo cielo! e ne chiedi

col fievole grido a chi vedi:

ov’è? ov’è?

Ne chiedi ai ragazzi, col giorno

venuti sopra il piè leggieri,

e alle rondini che intorno

passano come lampi neri.

Né più, tra il bisbiglio e il sussurro,

capisci il tuo cielo d’azzurro

dov’è!

Zitti!… ora non chiede più nulla:

dov’è, sua madre gliel’ha detto.

A lei lo porser dalla culla;

la mamma se l’è messo al petto.

Oh! ecco il suo cielo infinito!

e più non si sente il vagito:

ov’è? ov’è?

55. La servetta di monte

Sono usciti tutti. La serva

è in cucina, sola e selvaggia.

In un canto siede ed osserva

tanti rami appesi alla staggia.

Fa un giro con gli occhi, e bel bello

ritorna a guardarsi il pannello.

Non c’è nulla ch’essa conosca.

Tutto pende tacito e tetro.

E non ode che qualche mosca

che d’un tratto ronza ad un vetro;

non ode che il croccolìo roco

che rende la pentola al fuoco.

Il musino aguzzo del topo

è apparito ad uno spiraglio.

E` sparito, per venir dopo:

fa già l’acqua qualche sonaglio…

Lontano lontano lontano

si sente sonare un campano.

E` un muletto per il sentiero,

che s’arrampica su su su;

che tra i faggi piccolo e nero

si vede e non si vede più.

Ma il suo campanaccio si sente

sonare continuamente.

E` forse anco un’ora di giorno.

C’è nell’aria un fiocco di luna.

Come è dolce questo ritorno

nella sera che non imbruna!

per una di queste serate!

tra tanto odorino d’estate!

La ragazza guarda, e non sente

più il campano che a quando a quando.

Glielo vela forse il torrente

che a’ suoi piedi cade scrosciando;

se forse non glielo nasconde

la brezza che scuote le fronde;

od il canto dell’usignolo

che, tacendo passero e cincia,

solo solo con l’assiuolo

la sua lunga veglia comincia,

ch’ha fine su l’alba, alla squilla,

nel cielo, della tottavilla.

56. Addio!

Dunque, rondini rondini, addio!

Dunque andate, dunque ci lasciate

per paesi tanto a noi lontani.

E` finita qui la rossa estate.

Appassisce l’orto: i miei gerani

più non hanno che i becchi di gru.

Dunque, rondini rondini, addio!

Il rosaio qui non fa più rose.

Lungo il Nilo voi le rivedrete.

Volerete sopra le mimose

della Khala, dentro le ulivete

del solingo Achilleo di Corfù.

Oh! se, rondini rondini, anch’io…

Voi cantate forse morti eroi,

su quest’albe, dalle vostre altane,

quando ascolto voi parlar tra voi

nella vostra lingua di gitane,

una lingua che più non si sa.

Oh! se, rondini rondini, anch’io…

O son forse gli ultimi consigli

ai piccini per il lungo volo.

Rampicati stanno al muro i figli

che al lor nido con un grido solo

si rivolgono a dire: Si va?

Dunque, rondini rondini, addio!

Non saranno quelle che le case

han murato questo marzo scorso,

che a rifarne forse le cimase

strisceranno sopra il Rio dell’Orso,

che rugliava, e non mormora più.

Dunque, rondini rondini, addio!

Ma saranno pur gli stessi voli;

ma saranno pur gli stessi gridi;

quella gioia, per gli stessi soli;

quell’amore, negli stessi nidi;

risarà tutto quello che fu.

Oh! se, rondini rondini, anch’io…

io li avessi quattro rondinotti

dentro questo nido mio di sassi!

ch’io vegliassi nelle dolci notti,

che in un mesto giorno abbandonassi

alla libera serenità!

Oh! se, rondini rondini, anch’io…

rivolando su le vite loro,

ritrovando l’alba del mio giorno,

rimurassi sempre il mio lavoro,

ricantassi sempre il mio ritorno,

mio ritorno dal mondo di là!

57. Il ritratto

I

Nel collegio d’Urbino il mio fratello

faceva in grande un piccolo ritratto.

Quando il già fatto a noi parea pur bello,

sotto la gomma il bello era già sfatto.

Tornavamo scontenti alla finestra

per guardare, intrecciati alla ringhiera,

se una carrozza per la via maestra

montava nella pace della sera.

Era pace nei cuori. Era l’esame

passato alfine con le sue lunghe ore:

tranquillo alfine da più dì lo sciame

ronzava nella nuova arnia maggiore.

Più grande all’improvviso ogni fanciullo

si ritrovava dopo tante acquate;

il boccio apriva i petali in un frullo

meravigliando che già fosse estate;

e che fosse già colto, anzi, il ciliegio,

ma che di rosa si tingesse il melo;

che fosse tanto verde oltre il collegio,

ch’oltre la scuola fosse tanto cielo.

Si ronzava: non altro. Fra due scuole

già chiuse, una di fronte, una alle spalle,

nel mezzo c’era l’aria, c’era il sole,

odor di timo e voli di farfalle.

Ma nell’ore, più brevi ma più lente,

di studio, tra due libri, ch’uno troppo

sapeva e l’altro non sapea più niente,

stanchi del nostro insolito galoppo,

con tra le mani che sentian di lauro

e di busso, le guancie ancor di fiamma,

noi pensavamo al nostro bel San Mauro,

al babbo atteso d’ora in ora, a mamma…

Se il babbo, a casa, col più grande ch’era

già di liceo, portava anche noi tre!…

Era quello, lo studio: una preghiera,

prima che al babbo, o Dio presente, a te!

II

Il più grande, un fanciullo esile e bianco,

nostro babbo d’Urbino, al suo ritratto

calmo attendeva; ed ogni tanto al fianco

gli era un di noi che gli chiedeva: E` fatto?

Quasi… Ma il babbo arriva questa sera.

ed il ritratto non sarà finito!

Tornavamo a intrecciarci alla ringhiera,

a riguardare, ad appuntare il dito,

a dire, Vedi? a dire, Viene! O belle

serate, fin che il cielo era celeste,

e le vie bianche, e non ardean le stelle

sopra il nero di monti e di foreste!

Ma crescendo il silenzio, come triste

sonava la campana della cena;

mentre stelle lassù, viste e non viste,

cadevan per l’oscurità serena!

Oh! non veniva, non veniva ancora!

Il ritratto, sì, forse era venuto.

Anche due segni, l’opera d’un’ora,

di due: sarebbe vivo, benché muto.

Sì: finito in alcune ore, domani!

e sì: domani, ci sarebbe anch’esso!

Lo spiegherebbe tra le sue due mani,

sorriderebbe tacito a sé stesso;

e quindi al figlio, al caro primo, al vanto

di casa, al fiore che già dava il frutto:

e poi, con gli occhi molli un po’ di pianto;

anche ai minori – Eh! sapevate tutto? ! –

troverebbe una lode anche per loro…

Domani, dunque, all’ora del tramonto.

Il fanciullo, il domani, era al lavoro;

verso sera il lavoro era già pronto.

Mancava un nulla. Noi fissi alla via,

a una carrozza che montava su…

Oh! gittò un grido, spinse tutto via,

e tutto in pianto non lavorò più!

III

Era il dieci d’agosto. Era su l’ora

dello scurire. L’ora del ritorno.

Non attese al ritratto egli d’allora

più. Mai più, da quell’ora e da quel giorno.

Quella sera restammo alla finestra,

ancora, ancora. Ma pareva in vano.

Sì: era, il babbo, in una via maestra:

sì, ma come, ma quanto era lontano!

Oltre monti, oltre fiumi, oltre pianure,

oltre città. Veniva da Cesena.

Di buon trotto. Non anco erano oscure

le strade. Solo. L’anima, serena.

Oltre fiumi, città, monti, da un monte,

il caro figlio lo guardava in viso:

ne sfiorava la bianca larga fronte,

sorrideva al suo placido sorriso.

Oh! mio fratello, che fu mai? La bianca

fronte d’un tratto si macchiò di stille

rosse, la testa in un attimo stanca

per sempre, si piegò, con le pupille

ferme in eterno… O tu che sei congiunto

a lui, ch’oltre lo spazio, oltre la vita,

vedevi allora, oh! non egli in quel punto

si sentì su la fronte le tue dita?

La tua carezza non gli fu conforto

tra il sudor freddo e il rompere del sangue?

Non gli fu meglio, o mio fratello morto,

non veder là un doppio teschio esangue

dietro la siepe, e due vili ombre nere

fuggir nell’ombra; ma veder te, noi?

miseri, sì, per sempre, ma vedere

nella via sola quattro figli suoi?

Nella via sola, dopo il soprassalto

di pianto, tutti quattro, orfani già,

guardammo ancora. E poi guardammo in alto

cader le stelle nell’oscurità.

58. La cavalla storna

Nella Torre il silenzio era già alto.

Sussurravano i pioppi del Rio Salto.

I cavalli normanni alle lor poste

frangean la biada con rumor di croste.

Là in fondo la cavalla era, selvaggia,

nata tra i pini su la salsa spiaggia;

che nelle froge avea del mar gli spruzzi

ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.

Con su la greppia un gomito, da essa

era mia madre; e le dicea sommessa:

“O cavallina, cavallina storna,

che portavi colui che non ritorna;

tu capivi il suo cenno ed il suo detto!

Egli ha lasciato un figlio giovinetto;

il primo d’otto tra miei figli e figlie;

e la sua mano non toccò mai briglie.

Tu che ti senti ai fianchi l’uragano,

tu dài retta alla sua piccola mano.

Tu ch’hai nel cuore la marina brulla,

tu dài retta alla sua voce fanciulla”.

La cavalla volgea la scarna testa

verso mia madre, che dicea più mesta:

“O cavallina, cavallina storna,

che portavi colui che non ritorna;

lo so, lo so, che tu l’amavi forte!

Con lui c’eri tu sola e la sua morte.

O nata in selve tra l’ondate e il vento,

tu tenesti nel cuore il tuo spavento;

sentendo lasso nella bocca il morso,

nel cuor veloce tu premesti il corso:

adagio seguitasti la tua via,

perché facesse in pace l’agonia…”

La scarna lunga testa era daccanto

al dolce viso di mia madre in pianto.

“O cavallina, cavallina storna,

che portavi colui che non ritorna;

oh! due parole egli dové pur dire!

E tu capisci, ma non sai ridire.

Tu con le briglie sciolte tra le zampe,

con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,

con negli orecchi l’eco degli scoppi,

seguitasti la via tra gli alti pioppi:

lo riportavi tra il morir del sole,

perché udissimo noi le sue parole”.

Stava attenta la lunga testa fiera.

Mia madre l’abbracciò su la criniera

“O cavallina, cavallina storna,

portavi a casa sua chi non ritorna!

a me, chi non ritornerà più mai!

Tu fosti buona… Ma parlar non sai!

Tu non sai, poverina; altri non osa.

Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!

Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise:

esso t’è qui nelle pupille fise.

Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.

E tu fa cenno. Dio t’insegni, come”.

Ora, i cavalli non frangean la biada:

dormian sognando il bianco della strada.

La paglia non battean con l’unghie vuote:

dormian sognando il rullo delle ruote.

Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:

disse un nome… Sonò alto un nitrito.

59. In ritardo

E l’acqua cade su la morta estate,

e l’acqua scroscia su le morte foglie;

e tutto è chiuso, e intorno le ventate

gettano l’acqua alle inverdite soglie;

e intorno i tuoni brontolano in aria;

se non qualcuno che rotola giù.

Apersi un poco la finestra: udii

rugliare in piena due torrenti e un fiume;

e mi parve d’udir due scoppiettìi

e di vedere un nereggiar di piume.

O rondinella spersa e solitaria,

per questo tempo come sei qui tu?

Oh! non è questo un temporale estivo

col giorno buio e con la rosea sera,

sera che par la sera dell’arrivo,

tenera e fresca come a primavera,

quando, trovati i vecchi nidi al tetto,

li salutava allegra la tribù.

Se n’è partita la tribù, da tanto!

tanto, che forse pensano al ritorno,

tanto, che forse già provano il canto

che canteranno all’alba di quel giorno:

sognano l’alba di San Benedetto

nel lontano Baghirmi e nel Bornù.

E chiudo i vetri. Il freddo mi percuote,

l’acqua mi sferza, mi respinge il vento.

Non più gli scoppiettìi, ma le remote

voci dei fiumi, ma sgrondare io sento

sempre più l’acqua, rotolare il tuono,

il vento alzare ogni minuto più.

E fuori vedo due ombre, due voli,

due volastrucci nella sera mesta,

rimasti qui nel grigio autunno soli,

ch’aliano soli in mezzo alla tempesta:

rimasti addietro il giorno del frastuono,

delle grida d’amore e gioventù.

Son padre e madre. C’è sotto le gronde

un nido, in fila con quei nidi muti,

il lor nido che geme e che nasconde

sei rondinini non ancor pennuti.

Al primo nido già toccò sventura.

Fecero questo accanto a quel che fu.

Oh! tardi! Il nido ch’è due nidi al cuore,

ha fame in mezzo a tante cose morte;

e l’anno è morto, ed anche il giorno muore,

e il tuono muglia, e il vento urla più forte,

e l’acqua fruscia, ed è già notte oscura,

e quello ch’era non sarà mai più.

* * *

IL RITORNO A SAN MAURO

60. Le rane

Ho visto inondata di rosso

la terra dal fior di trifoglio;

ho visto nel soffice fosso

le siepi di pruno in rigoglio;

e i pioppi a mezz’aria man mano

distendere un penero verde

lunghesso la via che si perde

lontano.

Qual è questa via senza fine

che all’alba è sì tremula d’ali?

chi chiamano le canapine

coi lunghi lor gemiti uguali?

Tra i rami giallicci del moro

chi squilla il suo tinnulo invito?

chi svolge dal cielo i gomitoli

d’oro?

Io sento gracchiare le rane

dai borri dell’acque piovane

nell’umida serenità.

E fanno nel lume sereno

lo strepere nero d’un treno

che va…

Un sufolo suona, un gorgoglio

soave, solingo, senz’eco.

Tra campi di rosso trifoglio,

tra campi di giallo fiengreco,

mi trovo; mi trovo in un piano

che albeggia, tra il verde, di chiese;

mi trovo nel dolce paese

lontano.

Per l’aria, mi giungono voci

con una sonorità stanca.

Da siepi, lunghe ombre di croci

si stendono su la via bianca.

Notando nel cielo di rosa

mi arriva un ronzìo di campane,

che dice: Ritorna! Rimane!

Riposa!

E sento nel lume sereno

lo strepere nero del treno

che non s’allontana, e che va

cercando, cercando mai sempre

ciò che non è mai, ciò che sempre

sarà…

61. La Messa

La squilla sonava l’entrata.

Diceva con voce affrettata:

– Non entri? Non entri? Perché?

C’è un rito con fiori, con ceri,

con fiocchi d’incenso leggieri.

Su, entra, ché suono per te.

Udrai dopo un chiaro tintinno,

salire la gloria d’un inno

dall’organo che gemerà.

C’è un vecchio che mormora stanco

con tutto un suo tremolìo bianco,

parole di felicità.

La panca vedrai dove un giorno

veniva coi piccoli intorno

tua mamma: venivi anche tu.

Pregava (tuo padre non c’era)

pregava; ma quella preghiera

s’è forse smarrita laggiù.

T’udrai (sa il tuo nome!) chiamare

da quella… Ha le lagrime amare

del cuore che invano pregò.

Non entri? Anche tu piangerai.

Ma il piangere è buono, lo sai;

ma il piangere è buono, lo so.

Sonai per tua mamma… ma grave,

ma dolce, ma pia, come un Ave.

sonai per la madre che fu!

Sonai con rintocchi sì piani!

pensando che aveva lontani

voi, bimbi, che non vide più… –

62. La tessitrice

Mi son seduto su la panchetta

come una volta… quanti anni fa?

Ella, come una volta, s’è stretta

su la panchetta.

E non il suono d’una parola;

solo un sorriso tutto pietà.

La bianca mano lascia la spola.

Piango, e le dico: Come ho potuto,

dolce mio bene, partir da te?

Piange, e mi dice d’un cenno muto:

Come hai potuto?

Con un sospiro quindi la cassa

tira del muto pettine a sé.

Muta la spola passa e ripassa.

Piango, e le chiedo: Perché non suona

dunque l’arguto pettine più?

Ella mi fissa timida e buona:

Perché non suona?

E piange, e piange – Mio dolce amore,

non t’hanno detto? non lo sai tu?

Io non son viva che nel tuo cuore.

Morta! Sì, morta! Se tesso, tesso

per te soltanto; come, non so;

in questa tela, sotto il cipresso,

accanto alfine ti dormirò. –

63. Casa mia

Mia madre era al cancello.

Che pianto fu! Quante ore!

Lì, sotto il verde ombrello

della mimosa in fiore!

M’era la casa avanti,

tacita al vespro puro,

tutta fiorita al muro

di rose rampicanti.

Ella non anche sazia

di lagrime, parlò:

– Sai, dopo la disgrazia,

ci ristringemmo un po’… –

Una lieve ombra d’ale

annunziò la notte

lungo le bergamotte

e i cedri del viale.

– ci ristringemmo un poco,

con le tue bimbe; e fanno… –

Era il suo dire fioco

fioco, con qualche affanno.

S’udivano sussurri

cupi di macroglosse

su le peonie rosse

e sui giaggioli azzurri.

– Fanno per casa (io siedo)

le tue sorelle tutto.

Quando così le vedo,

col grembiul bianco, in lutto… –

Io vidi allor la mia

vita passar soave,

tra le sorelle brave,

presso la madre pia.

Dissi: – Oh! restare io voglio!

Vidi nel mio cammino

al sangue del trifoglio

presso il celeste lino.

Qui sperderò le oscure

nubi e la mia tempesta,

presso la madre mesta,

tra le sorelle pure!

Lavorerò di lena

tutto il gran giorno; e sento

ch’alla tua parca cena

m’assiderò contento,

quando dal mio lavoro,

o la tua lieve mano

od il vocio lontano

mi chiamerà, di loro.

E sarò lieto e ricco

io delle mie fatiche,

quando ogni tenue chicco

germinerà tre spiche.

E comprerò leggiadre

vesti alle mie fanciulle,

e l’abito di tulle

alla lor dolce madre. –

Così dicevo: in tanto

ella piangea più forte,

e gocciolava il pianto

per le sue guancie smorte.

S’udivano sussurri

cupi di macroglosse

su le peonie rosse

e sui giaggioli azzurri.

– Oh! tu lavorerai

dove son io? Ma dove

son io, figliuolo, sai,

ci nevica e ci piove! –

Una lieve ombra d’ale

annunziò la notte

lungo le bergamotte

e i cedri del viale.

– Oh! dolce qui sarebbe

vivere? oh! qui c’è bello?

Altri qui nacque e crebbe!

Io sto, vedi, al cancello. –

M’era la casa avanti,

tacita al vespro puro,

tutta fiorita al muro

di rose rampicanti.

64. Mia madre

Zitti, coi cuori colmi,

ci allontanammo un poco.

Tra il nereggiar degli olmi

brillava il cielo in fuoco.

… Come fa presto sera,

o dolce madre, qui!

Vidi una massa buia

di là del biancospino:

vi ravvisai la thuia,

l’ippocastano, il pino…

… Or or la mattiniera

voce mandò il luì;

Tra i pigolìi dei nidi,

io vi sentii la voce

mia di fanciullo… E vidi,

nel crocevia, la croce.

… sonava a messa, ed era

l’alba del nostro dì:

E vidi la Madonna

dell’Acqua, erma e tranquilla,

con un fruscìo di gonna,

dentro, e l’odor di lilla.

… pregavo… E la preghiera

di mente già m’uscì!

Sospirò ella, piena

di non so che sgomento.

Io me le volsi: appena

vidi il tremor del mento.

… Come non è che sera,

madre, d’un solo dì?

Me la miravo accanto

esile sì, ma bella:

pallida sì, ma tanto

giovane! una sorella!

bionda così com’era

quando da noi partì.

65. Commiato

Una stella sbocciò nell’aria.

Le risplendé nelle pupille.

Su la campagna solitaria

tremava il pianto delle squille.

– E` ora, o figlio, ora ch’io vada.

Sono stata con te lunghe ore.

Tra questi bussi è la mia strada;

la tua, tra quelle acacie in fiore.

Sii buono e forte, o figlio mio:

va dove t’aspettano. Addio!

…Venir con te? Ma non è dato!

Sai pure: m’han cacciata via.

Ci fu chi non mi volle allato

nel mondo, così larga via;

chi non permise che, sia pure,

stessi con le mie creature.

…Tu venir qui? Viene chi muore…

E tu vuoi dunque venir qui.

Sei stanco: è vero? Hai male al cuore.

Quel male l’ebbi anch’io, Zvanî!

E` un male che non fa dormire;

ma che alfine poi fa morire. –

Si chiudevano i casolari.

Cresceva l’ombra delle cose.

Ancor tra i lontani filari

traspariva color di rose.

– Ma dimmi, o madre, dimmi almeno,

se nel tramonto del suo giorno

tuo figlio si deve sereno

preparare per un ritorno!

se ciò che qualcuno ci prende,

v’è qualch’altro che ce lo rende!

Ricorderò quella preghiera

con quei gesti e segni soavi;

tuo figlio risarà qual era

allora che glieli insegnavi:

s’abbraccerà tutto all’altare:

ma fa che ritorni a sperare!

A sperare e ora e nell’ora

così bella se a te conduce!

O madre, fa ch’io creda ancora

in ciò ch’è amore, in ciò ch’è luce!

O madre, a me non dire, Addio,

se di là è, se teco è Dio! –

Sfioriva il crepuscolo stanco.

Cadeva dal cielo rugiada.

Non c’era avanti me, che il bianco

della silenziosa strada.

66. Giovannino

In una breccia, allo smorir del cielo,

vidi un fanciullo pallido e dimesso.

Il fior caduto ravvisò lo stelo;

io nel fanciullo ravvisai me stesso.

Ci rivedemmo all’ultimo riflesso;

e sì, l’uno dell’altro ebbe pietà.

Gli dissi: – Tu sei qui solo soletto:

un mucchiarello d’alga presso il mare.

Hai visto un chiuso, e tu non hai più tetto;

di là c’è gente, e tu vorresti entrare.

Oh! quella casa è senza focolare:

non c’è, fuor che silenzio, altro, di là. –

Scosse i capelli biondi di su gli occhi.

– No! – mi rispose: – là c’è il camposanto.

Tua madre ti riprende sui ginocchi;

tu ti rivedi i fratellini accanto.

Si trova un bacio quando qui s’è pianto;

si trova quello che smarrimmo qui. –

– O fior caduto alla mia vita nuova! –

io rispondeva, – o raggio del mattino!

Io persi quello che non più si trova,

e vano è stato il lungo mio cammino.

A notte io vedo, stanco pellegrino,

che deviai su l’alba del mio dì!

Felice te che a quello che rimpiango,

così da presso, al limitar, rimani! –

– Misero me, che fuori ne rimango,

così lontano come i più lontani!

Alla porta che s’apre alzo le mani,

ma tu sai ch’io… non posso entrarvi più.

S’apre a tant’altri gracili fanciulli,

addormentati sui lor lunghi temi,

addormentati in mezzo ai lor trastulli;

s’apre appena e si chiude e par che tremi:

assai se, là, venir tra i crisantemi

vedo la rossa veste di Gesù!… –

67. Il bolide

Tutto annerò. Brillava, in alto in alto,

il cielo azzurro. In via con me non c’eri,

in lontananza, se non tu, Rio Salto.

Io non t’udiva: udivo i cantonieri

tuoi, le rane, gridar rauche l’arrivo

d’acqua, sempre acqua, a maceri e poderi.

Ricordavo. A’ miei venti anni, mal vivo,

pensai tramata anche per me la morte

nel sangue. E, solo, a notte alta, venivo

per questa via, dove tra l’ombre smorte

era il nemico, forse. Io lento lento

passava, e il cuore dentro battea forte.

Ma colui non vedrebbe il mio spavento,

sebben tremassi all’improvviso svolo

d’una lucciola, a un sibilo di vento:

lento lento passavo: e il cuore a volo

andava avanti. E che dunque? Uno schianto;

e su la strada rantolerei, solo…

no, non solo! Lì presso è il camposanto,

con la sua fioca lampada di vita.

Accorrerebbe la mia madre in pianto.

Mi sfiorerebbe appena con le dita:

le sue lagrime, come una rugiada

nell’ombra, sentirei su la ferita.

Verranno gli altri, e me di su la strada

porteranno con loro esili gridi

a medicare nella lor contrada,

così soave! dove tu sorridi

eternamente sopra il tuo giaciglio

fatto di muschi e d’erbe, come i nidi!

Mentre pensavo, e già sentìa, sul ciglio

del fosso, nella siepe, oltre un filare

di viti, dietro un grande olmo, un bisbiglio

truce, un lampo, uno scoppio… ecco scoppiare

e brillare, cadere, esser caduto,

dall’infinito tremolìo stellare,

un globo d’oro, che si tuffò muto

nelle campagne, come in nebbie vane,

vano; ed illuminò nel suo minuto

siepi, solchi, capanne, e le fiumane

erranti al buio, e gruppi di foreste,

e bianchi ammassi di città lontane.

Gridai, rapito sopra me: Vedeste?

Ma non v’era che il cielo alto e sereno.

Non ombra d’uomo, non rumor di péste.

Cielo, e non altro: il cupo cielo, pieno

di grandi stelle; il cielo, in cui sommerso

mi parve quanto mi parea terreno.

E la Terra sentii nell’Universo.

Sentii, fremendo, ch’è del cielo anch’ella.

E mi vidi quaggiù piccolo e sperso

errare, tra le stelle, in una stella.

68. Tra San Mauro e Savignano

Una voce ora udii nel camposanto.

– Dal tetro sonno in pieno dì mi scosse

un lungo squillo che parea di pianto.

E… Oh! speranza del mio cuor superba!

I miei cari lasciai nelle lor fosse

dormire avvolti in bianche fibre d’erba.

Cantavano un soave inno le trombe,

di pianto e gloria; ed echeggiava lento

su l’immobilità delle altre tombe.

La mia sussultò sola. Era d’un grande

popolo il passo… mi parea che al vento

s’esalasse l’odor delle ghirlande…

Chi venne in pia soavità di rose

alla sua pace? Forse… Ora che ai vivi

apri l’anime, o notte, ombri le cose;

vado: la voglio rimirar, con l’orme

del pensiero ma già sui semprevivi

calma, la fronte di colui che dorme.

Odor di fiori mi conduce ov’egli

dorme… Non è chi mi sperava il cuore.

Non è. Non è… Ma chi sei tu? Tu vegli!

Oh! non hai pace!… Io so chi sei… chi eri.

Tu sei colui che uccide e che poi muore.

Oh! son anni, son anni anni… Fu ieri.

Tu non hai fatto che bagnar la fossa

tua del mio sangue. E tu davi la morte

che ignoravi? Ma eri anche tu d’ossa.

L’uomo non ti punì? Tu dalla vita

giungi tra i fiori? Hai oggi dalla morte

la pena che sarebbe oggi finita.

Riposeresti… Oh! i figli miei! Tu giungi

or dalla vita. Alcuni già qui sono

con me, con noi. Gli altri, non so, ma lungi.

Una dormiva ancora nella culla.

Tutti piccoli, tristi, in abbandono

e scoramento… Ne sai nulla?… Nulla.

Avevi i tuoi… Ma io, io ombra esangue,

io di qui sopra le lor nude vite

getto il mantello del mio puro sangue.

Se fanno il male, li difendo io, sorto

su loro. Uomini, me me non punite,

se chi m’uccise, infuria su me morto!

Se poi si sono stretti, umili e proni

al lor destino e nella terra amara

per bontà loro vollero esser buoni;

oh! benedetti! E il tristo ieri adorni

oggi di fiori semplici la cara

miseriola dei lor miti giorni.

Ma se alcuno di loro, dallo stento

della sua giovinezza, a poco a poco

avesse alzato, oh! non la fronte e il mento,

ma il cuore! il cuore! se dalla sua creta

insanguinata avesse tratto il fuoco!

se fosse, quel mendico, ora un poeta!

fosse un consolatore, egli cui niuno

consolò! fosse, il derelitto, un forte!

un grande fosse l’orfano digiuno!…

Io sogno! Io sogno, o muto autor del male!

ma se di quelli che dannasti a morte

col padre loro, fosse, uno, immortale!

Oh! se qui, con soavi inni, a’ suoi morti

ch’egli amò tanto, il popolo suo mai,

in un giorno d’amor, non lo riporti;

io là sarò, col figlio mio sepolto,

che mi ridona ciò che gli donai,

che m’ha ridato ciò che tu m’hai tolto! –

Oh padre!… Gli astri… Vega, Aquila, Arturo…

splendeano sopra il camposanto oscuro…

* * *

APPENDICE

69. Diario autunnale

(1907)

I

Bologna, 1 novembre.

Che fanno là, presso la muta altana,

i crisantemi, i nostri fior, che fanno?

Oh! stanno là, con la beltà lor vana,

a capo chino, lagrimando, stanno.

Pensano che quest’anno sei lontana,

lagrimano che non ci sei quest’anno.

Non torna più! mormora la campana…

Ma le cincie: Sì! Sì! Ritorneranno!

II

Bologna, 2 novembre.

Per il viale, neri lunghi stormi,

facendo tutto a man a man più fosco,

passano: preti, nella nebbia informi,

che vanno in riga a San Michele in Bosco.

Vanno. Tra loro parlano di morte.

Cadono sopra loro foglie morte.

Sono con loro morte foglie sole.

Vanno a guardare l’agonia del sole.

III

Torre di San Mauro.

Notte dal 9 al 10 novembre.

Dormii sopra la chiesa della Torre.

Cantar, la notte, udii soave e piano.

Udii, tra sonno e sonno, voci e passi,

e tintinnire il campanello d’oro,

ed un fruscìo di pii bisbigli bassi,

ed un ronzìo d’alte preghiere in coro,

ed una gloria d’organo canoro,

che dileguava a sospirar lontano.

A sospirar così soave e piano!

Era una messa. Santo! Santo! Santo!

Ma eran voci morte che cantare

udii la notte fino sul mattino:

un morto prete curvo su l’altare,

un bimbo morto ritto sul gradino,

con su le spalle il suo lenzuol di lino

in che l’avvolse la sua madre in pianto.

Era la messa. Santo! Santo! Santo!

Ma sul mattino ecco garrir gli uccelli:

– No: era il vento quel ronzìo che udisti,

erano pioggia quei bisbigli bassi.

Frusciavan alto i vecchi abeti tristi,

brusivan cupo i tristi vecchi tassi.

Erano foglie, foglie secche, i passi,

cadute ai vecchi tigli, ai vecchi ornelli. –

Così garrendo mi dicean gli uccelli.

E i vecchi alberi: – Il tempo, come corre!

Quel campanello era il tuo vecchio cuore,

in cui battean vecchie memorie care;

ma le altre voci, fievoli o sonore,

di noi, non le potevi ricordare…

Siamo di dopo!… A que’ tuoi giorni, pare,

tutto era a prato avanti quella Torre. –

IV

Bologna, 14 novembre.

La luna par che adagio si avvicini

a San Michele, e guardi nel Convento.

No: non ci sono frati, ma bambini…

fuori del nido. Ella ristà tra il vento.

Han l’ali rotte… Ma nei letti bianchi

dormono in lunghe file, come stanchi;

stanchi di voli, ora sognati almeno,

che poi la madre li raccoglie al seno.

La luna ascolta. Non li vuol destare

ma vuol vedere; e se ne va, ma sale.

Illuminare deve i monti e il mare,

ma un raggio manda anche sul lor guanciale.

E sale il cielo, l’alto cielo buono;

cerca le stelle in cielo: dove sono?…

e corre e cerca: dove mai son elle?…

Vuol dir la cosa alle virginee stelle.

V

Bologna, 20 novembre.

Il ponte sull’Aposa

Aposa trista! Il povero al tuo ponte

sosta, e non altri. Siede sul sedile,

né guarda: non a valle non a monte:

non alle torri lunghe e sdutte, che oggi

sfumano in grigio, non a quelle file

d’alti cipressi tra i castagni roggi:

ascolta, a capo chino, ad occhi bassi,

te che laggiù brontoli cupa, e passi.

A te vengono gli uomini infelici,

Aposa trista! E nella solitaria

notte a qualcuno tristi cose dici.

T’ascolta a lungo. E poi, quando una foglia

secca di platano, a un brivido d’aria,

sembra un fruscìo di gonna su la soglia:

ecco, quell’uomo non è più: dirupa…

tu passi, e dopo un po’ brontoli cupa.

Aposa trista! E l’Aposa risponde:

– Vien l’usignolo, a marzo, tra le acace!

Al gorgoglìo delle mie picciole onde

sta prima attento, a lungo impara, e tace.

Ma poi di canto m’empie le due sponde;

e il canto suo già mio singulto fu.

Canta al suo nido, al nido suo di fronde,

di quelle fronde che cadono giù… –

VI

Bologna, 12 decembre.

Narcissi

– Narcissi d’oro, candidi narcissi,

voi che corona avete oltre corolla:

per cuna aveste un vaso, e non la zolla;

terriccio a letto, e non la madre terra.

Per gli altri il freddo, ma per voi la serra;

morivan gli altri, e voi veniste in boccia.

Ora ogni foglia stride e s’accartoccia;

e voi fiorite, lieti, belli, e soli. –

– Oh! i primi caldi dopo il verno, e i voli

delle farfalle, e i canti dei fringuelli!

Al sole uscir con tutti i suoi fratelli,

odorar tutti al cominciar d’aprile!

al vento, all’acqua, a gruppi a macchie a file,

in tanti, in tanti, da sfiorire in pace!

nel prato, con le altr’erbe, fin che piace

alla falce che agguaglia erbe e narcissi. –

VII

Castelvecchio, 15 decembre.

Nell’orto

A casa mia giunto sul vespro alfine,

io vedo un sogno ch’è pur cosa vera.

I quattro peri che piantai nell’orto

a circondar la conca d’arenaria,

vedo fioriti! E il cielo è bigio e smorto,

la nebbia fuma, fredda punge l’aria:

la neve è su la Pania solitaria…

– Allora, a marzo, o che lassù non c’era? –

E tutto cade, tutto va, si perde;

il fiume va come una folla in pianto.

La quercia ha il musco e l’edera, di verde:

sui verdi rami ha un suo gran rosso manto.

Sol foglie secche, e i vostri fior soltanto!…

– O non era così di primavera? –

Marzo a decembre, alba somiglia a sera!

Eppure altro è il principio, altro la fine.

Vedo tremare un poco le fogline

delle corolle al vento che le sfiora.

Avete il tempo, arbusti miei, sbagliato:

ora non viene la dolciura in cielo.

Non si prepara a rifiorire il prato:

viene la brina e mangia ogni suo stelo.

Viene la brina, ed anche viene il gelo…

– E così dunque non accadde allora? –

Ma il monte allora ritornò turchino,

e fiorirono i peschi e gli albicocchi.

Era fiorito il mandorlo e il susino,

metteva il melo foglie e fiori a gli occhi.

Fiori per tutto, a spighe, a mazzi, a fiocchi…

– A noi, col gelo li strinò l’aurora! –

Poveri arbusti! E si riprovan ora.

Oh! videro fiorire anche le spine!…

VIII

Castelvecchio, 21 decembre.

Io sento il suono dell’antica avena

su l’alba ancora scialba ma serena.

Ed ecco il monte trascolora in rosa,

splendono i vetri a tutte le finestre.

E gente va, che vuol saper la cosa,

per le callaie e per le vie maestre.

Va dove il placido organo silvestre

canta l’antica sacra cantilena.

E` un pastor bianco al pari della neve,

che non ha casa ed anco all’otre beve.

Dice: – Era il sole per fuggir dal cielo.

Oggi s’è fermo e tornerà pian piano.

Piccolo è il seme, ma fa lungo stelo;

il seme è poco, ma fa tanto grano:

ed il buon Sole per un anno sano

semina, o genti, il giorno suo più breve. 

FINE

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