Giovanni Pascoli – Canti di Castelvecchio (Parte 2/4)

17. Il ciocco, Canto Primo

Il babbo mise un gran ciocco di quercia

su la brace; i bicchieri avvinò; sparse

il goccino avanzato; e mescé piano

piano, perché non croccolasse, il vino.

Ma, presa l’aria, egli mesceva andante.

E ciascuno ebbe in mano il suo bicchiere,

pieno, fuor che i ragazzi; essi, al bicchiere

materno, ognuno ne sentiva un dito.

Fecero muti i vegliatori il saggio,

lodando poi, parlando dei vizzati

buoni; ma poi passarono allo strino,

quindi all’annata trista e tribolata.

E le donne ripresero a filare,

con la rócca infilata nel pensiere:

tiravano prillavano accoccavano

sfacendo i gruppi a or a or coi denti.

Come quando nell’umida capanna

le magre manze mangiano, e via via,

soffiando nella bassa greppia vuota,

alzano il muso, e dalla rastrelliera

tirano fuori una boccata d’erba;

d’erba lupina co’ suoi fiori rossi,

nel maggio indafarito, ma nel verno,

d’arida paglia e tenero guaime;

così dalla mannella, ogni momento,

nuova tiglia guidata era nel fuso.

Io dissi: “Brucia la capanna a gente!”

E i vegliatori, col bicchiere in mano,

tutti volsero gli occhi alla finestra,

quasi a vedere il lustro della vampa,

ad ascoltare il martellare a fuoco,

ton ton ton, nella notte insonnolita.

Non c’era nella notte altro splendore

che di lontane costellazioni,

e non c’era altro suono di campana,

se non della campana delle nove,

che da Barga ripete al campagnolo:

– Dormi, che ti fa bono! bono! bono! –

Non capparone ardeva per le selve,

zeppo di fronde aspre dal tramontano;

non meta di vincigli di castagno,

fatti d’agosto per serbarli al verno;

non metato soletto in cui seccasse

a un fuoco dolce il dolce pan di legno:

sopra le cannaiole le castagne

cricchiano, e il rosso fuoco arde nel buio.

Al buio il rio mandava un gorgoglìo,

come s’uno ci fosse a succhiar l’acqua.

Tutto era pace: sotto ogni catasta

sornacchiava il suo ghiro rattrappito.

In cima al colle un nero metatello

fumava appena in mezzo alla Grand’Orsa.

Che bruciava?… La quercia, assai vissuta,

fu scalzata da molte opre, e fu svelta

e giacque morta. Ma la secca scorza,

all’acqua e al sole rifiorì di muschi;

e un’altra vita brulicò nel legno

che intarmoliva: un popolo infinito

che ben sapeva l’ordine e la legge,

v’impresse i solchi di città ben fatte.

E chi faceva nuove case ai nuovi,

e chi per tempo rimettea la roba,

e chi dentro allevava i dolci figli,

e chi portava i cari morti fuori.

Quando s’udì l’ingorda sega un giorno

rodere rauca torno torno il tronco;

e il secco colpo rimbombò del mazzo

calato da un ansante ululo d’uomo.

E il tronco sodo ora sputava fuori

la zeppola d’acciaio con uno sprillo,

or la pigliava, e si sentiva allora

crepare il legno frangolo, e stioccare

le stiglie, or dalla gran forza strappate,

ora recise dalla liscia accetta:

lucida accetta che alzata a due mani

spaccava i ciocchi e ne facea le schiampe.

Le schiampe alcuno accatastò; poi altri

se le portò nella legnaia opaca.

Del popolo infinito era una gente

rimasta in un dei ciocchi. Ebbe l’accetta

molte case distrutte, ebbe d’un colpo

il mazzo molte sue tribù schicciate.

Ma i sorvissuti non sapean già nulla:

ché volgendo i lor mille anni in un anno,

chi schivò l’ascia, chi campò dal mazzo,

l’ago sentì, che, dopo un po’ che cuce,

il Tempo, uggito, punta nel lavoro,

e se ne va. Nessuno ora sapeva

che il mondo loro fu congiunto al tutto

della gran quercia sotto un cielo azzurro.

Sapeva ognuno che non c’era altr’aria

che quell’odor di mucido, altro suono

che il grave gracilar delle galline

e il sottile stridìo dei pipistrelli:

dei pipistrelli che pendeano a pigne

dai cantoni, nel giorno, quando il sole

facea passare i fili suoi tra i licci

d’una tela che ordiva un vecchio ragno.

Così passava la lor cauta vita

nell’odoroso tarmolo del ciocco:

e chi faceva nuove case ai nuovi,

e chi per tempo rimettea la roba,

e chi dentro allevava i dolci figli,

e chi portava i cari morti fuori.

E videro l’incendio ora e la fine

i vegliatori: disse ognun la sua.

E disse il Biondo, domator del ferro,

cui la verde Corsonna ama, e gli scende

cantando per le selve allo stendino,

e per lui picchia non veduta il maglio:

“Vogliono dire ch’hanno tutti i ferri,

quanti con sé porta il bottaio, allora

ch’è preso a opra avanti la vendemmia:

l’aspro saracco, l’avido succhiello,

e tenaglie che azzeccano, e rugnare

di scabra raspa e scivolar di pialla.

Ché non hanno bottega: a giro vanno

come il nero magnano, quando passa

con quello scampanìo sopra il miccetto;

ossia concino, o fradicio ombrellaio,

voce del verno, la qual morde il cuore

a chi non fece le rimesse a tempo.

Né leo leo vanno, come loro.

Piglian le gambe e stradano, la vita,

come noi, strinta dal grembial di cuoio”.

E disse il Topo, portatore in collo,

primo, fuor che del Nero; sì, ma questi

porta più poco, e brontola incaschito:

– Carico piccolo è che scenta il bosco -:

“Vogliono dire ch’han la tiglia soda

più che nimo altri che di mattinata

porti in monte il cavestro e la bardella.

E hanno l’arte, perché intorno al peso

girano ora all’avanti ora all’indietro

or dalle parti, per entrarci sotto.

Se lo possono, via, telano; quando

non lo possono, vanno per aiuto;

e su e su, per una carraiuola:

come una nera fila di muletti

di solitari carbonai, su l’Alpe,

che in quel silenzio semina i tintinni

de’ suoi sonagli. Alcuno ecco s’espone,

come anco noi, per ragionar con altri

che scende, e frescheggiare allo sciurino”.

E disse il Menno, vangatore a fondo,

a cui la terra, nell’aprir d’aprile,

rotta e domata ai piedi ansa e rifiata:

e’ la sogguarda curvo su l’astile:

“Ho inteso dire ch’hanno i suoi poderi,

come noi. Sotto le città ben fatte

coltano un campo sodo: che bel bello

si fa lo scasso, e qua si tira dentro,

là si leva la terra, e si tramuta

con le pale o valletti e cestinelle.

La pareggiano, seminano. Nasce

un’erba. Ed ecco poi vanno a pulirla,

levano il loglio, scerbano i vecciuli,

e scentano la sciàmina, cattiva,

e la gramigna, che riè cattiva,

e i paternostri, ch’è peggior di tutte.

A suo tempo si sega, lega, ammeta,

scuote, ventola, spula. Eccolo bello

nel bel soppiano dai due godi il grano”.

E disse il Bosco, buon pastor di monte,

ch’era ad albergo: egli da Pratuscello

mena il branco alla Pieve, a quei guamacci:

per là dicon guamacci: è il terzo fieno:

“Ho inteso dire ch’hanno le sue bestie:

quali, pecore, e quali, proprio bestie,

ossia da frutto, ovvero anche da groppa.

Ma piccoline e verdi queste, e quelle

con una lana molle come sputo:

pascono in cento un cuccolo di fiore.

E il pastore ha due verghe, esso, non una:

due, con nodetti, come canne; e molge

con esse: le vellìca, e dànno il latte;

o chiuse dentro, o fuori, per le prata:

come noi, che si molge all’aria aperta,

nella statina, le serate lunghe:

quando su l’Alpe c’è con noi la luna

sola, che passa, e splende sui secchielli,

e il poggio rende un odorin che accora”.

E disse il Quarra, un capo, uno che molto

girò, portando santi e re sul capo,

di là dei monti e del sonante mare:

ora s’è fermo, e campa a campanello:

“Lessi in un libro, ch’hanno contadini

come noi; ma non come mezzaiuoli

timidi sol del Santo pescatore,

e che, d’ottobre, quando uno scasato

cerca podere, a lui dice il fringuello:

– Ce n’è, ce n’è, ce n’è, Francesco mio! –

Quelli no, sono negri. Alla lor terra

venne un lontano popolo guerriero,

che il largo fiume valicò sul ponte.

Fecero un ponte: l’uno chiappò l’altro

per le gambe, e così tremolò sopra

l’acqua una lunga tavola. Fu presa

la munita città, presi i fanciulli,

ch’or sono schiavi e fanno le faccende;

e il vincitore campa a campanello”.

E qui la China, madre d’otto figli

già sbozzolati, accoccò il filo al fuso,

mise il fuso sul legoro, le tiglie

si strusciò dalla bocca arida; e disse:

“Io l’ho vedute, come fanno ai figli

le madri, ossia le balie. Hanno figlioli

quasi fasciati dentro un bozzolino.

Lo sa la mamma che lì dentro è chiuso

il lor begetto, ch’è cicchin cicchino,

e dorme, e gli fa freddo e gli fa caldo.

Lasciano all’altre le faccende, ed esse

altro non fanno che portare il loro

furigello ora all’ombra ed ora all’aspro,

in collo, come noi; ch’è da vedere

come via via lo tengono pulito,

come lo fanno dolco con lo sputo;

e infine con la bocca aprono il guscio,

come a dire, le fasce; e il figliolino

n’esce, che va da sé, ma gronchio gronchio”.

Così parlando, essi bevean l’arzillo

vino, dell’anno. E mille madri in fuga

correan pei muschi della scorza arsita,

coi figli, e c’era d’ogni intorno il fuoco;

e il fuoco le sorbiva con un breve

crepito, né quel crepito giungeva

al nostro udito, più che l’erme vette

d’Appennino e le aguzze Alpi apuane,

assise in cerchio, con l’aeree grotte

intronate dal cupo urlo del vento,

odano lo stridor d’un focherello

ch’arde laggiù laggiù forse un villaggio

con le sue selve; un punto, un punto rosso

or sì or no. Né pur vedea la gente

là, che moriva, i mostri dalla ferrea

voce e le gigantesse filatrici:

i mostri che reggean concavi laghi

di sangue ardente, mentre le compagne

con moto eterno, tra un fischiar di nembi,

mordean le bigie nuvole del cielo.

Ma non vedeva il popolo morente

gli dei seduti intorno alla sua morte,

fatti di lunga oscurità: vedeva,

forse in cima all’immensa ombra del nulla,

su, su, su, donde rimbombava il tuono

della lor voce, nelle occhiute fronti,

da un’aurora notturna illuminate,

guizzare i lampi e scintillar le stelle.

E lo Zi Meo parlò. Disse: “Formiche!

L’altr’anno seminai l’erba lupina.

Venne la pioggia: non ne nacque un filo.

Vennero i soli: il campo parea sodo.

Un giorno che v’andai, vidi sul ciglio

del poggio un mucchiarello alto di chicchi.

Guardai per tutto. Ad ogni poco c’era

un mucchiarello. Erano i semi, i semi

d’erba lupina. Avean rumato poco?

Non un chicco, ch’è un chicco, era rimasto!

Aveano fatto, le formiche, appietto!

E ben sì che v’avevo anco passato

l’erpice a molti denti, e su la staggia,

per tutte bene pianeggiar le porche,

mi facev’ir di qua di là, come uno

fa, nel passaggio, in mezzo all’Oceàno”.

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17. Il ciocco, Canto Secondo

Ed il ciocco arse, e fu bevuto il vino

arzillo, tutto. Io salutai la veglia

cupo ronzante, e me ne andai: non solo:

m’accompagnava lo Zi Meo salcigno.

Era novembre. Già dormiva ognuno,

sopra le nuove spoglie di granturco.

Non c’era un lume. Ma brillava il cielo

d’un infinito riscintillamento.

E la Terra fuggiva in una corsa

vertiginosa per la molle strada,

e rotolava tutta in sé rattratta

per la puntura dell’eterno assillo.

E rotolando per fuggir lo strale

d’acuto fuoco che le ruma in cuore,

ella esalava per lo spazio freddo

ansimando il suo grave alito azzurro.

Così, nel denso fiato della corsa

ella vedeva l’iridi degli astri

sguazzare, e nella cava ombra del Cosmo

ella vedeva brividi da squamme

verdi di draghi, e svincoli da fruste

rosse d’aurighi, e lampi dalle freccie

de’ sagittari, e spazzi dalle gemme

delle corone, e guizzi dalle corde

delle auree lire; e gli occhi dei leoni

vigili e i sonnolenti occhi dell’orse.

Noi scambiavamo rade le ginocchia

sotto le stelle. Ad ogni nostro passo

trenta miglia la terra era trascorsa,

coi duri monti e le maree sonore.

E seco noi riconduceva al Sole,

e intorno al Sole essa vedea rotare

gli altri prigioni, come lei, nel cielo,

di quella fiamma, che con sé li mena.

Come le sfingi, fosche atropi ossute,

l’acri zanzare e l’esili tignuole,

e qualche spolverìo di moscerini,

girano intorno una lanterna accesa:

una lanterna pendula che oscilla

nella mano d’un bimbo: egli perduta

la monetina in una landa immensa,

la cerca invano per la via che fece

e rifà ora singhiozzando al buio:

e nessun ode e vede lui, ch’è ombra,

ma vede e svede un lume che cammina,

né par che vada, e sempre con lui vanno,

gravi ronzando intorno a lui, le sfingi:

lontan lontano son per tutto il cielo

altri lumi che stanno, ombre che vanno,

che per meglio vedere alzano in vano

verso le solitarie Nebulose

l’ardor di Mira e il folgorio di Vega.

Così pensavo; e non trovai me stesso

più, né l’alta marmorea Pietrapana,

sopra un grano di polvere dell’ala

della falena che ronzava al lume:

dell’ala che in quel punto era nell’ombra;

della falena che coi duri monti

e col sonoro risciacquar dei mari

mille miglia in quel punto era trascorsa.

Ed incrociò con la sua via la strada

d’un mondo infranto, e nella strada ardeva,

come brillante nuvola di fuoco,

la polvere del suo lungo passaggio.

Ma niuno sa donde venisse, e quanto

lontane plaghe già battesse il carro

che senza più l’auriga ora sfavilla

passando rotto per le vie del Sole.

Né sa che cosa carreggiasse intorno

ad uno sconosciuto astro di vita,

allora forse di su lui cantando

i viatori per la via tranquilla;

quando urtò, forviò, si spezzò, corse

in fumo e fiamme per gli eterei borri,

precipitando contro il nostro Sole,

versando il suo tesoro oltresolare:

stelle; che accese in un attimo e spente,

rigano il cielo d’un pensier di luce.

Là, dove i mondi sembrano con lenti

passi, come concorde immensa mandra,

pascere il fior dell’etere pian piano,

beati della eternità serena;

pieno è di crolli, e per le vie, battute

da stelle in fuga, come rossa nube

fuma la densa polvere del cielo;

e una mischia incessante arde tra il fumo

delle rovine, come se Titani

aeriformi, agli angoli del Cosmo,

l’un l’altro ardendo di ferir, lo spazio

fendessero con grandi astri divelti.

Ma verrà tempo che sia pace, e i mondi,

fatti più densi dal cader dei mondi,

stringan le vene e succhino d’intorno

e in sé serrino ogni atomo di vita:

quando sarà tra mondo e mondo il Vuoto

gelido oscuro tacito perenne;

e il Tutto si confonderà nel Nulla,

come il bronzo nel cavo della forma;

e più la morte non sarà. Ma il vento

freddo che sibilando odo staccare

le foglie secche, non sarà più forse,

quando si spiccherà l’ultima foglia?

E nel silenzio tutto avrà riposo

dalle sue morti; e ciò sarà la morte.

Io riguardava il placido universo

e il breve incendio che v’ardea da un canto.

Tempo sarà (ma è! poi ch’il veloce

immobilmente fiume della vita

è nella fonte, sempre, e nella foce),

tempo, che persuasa da due dita

leggiere, mi si chiuda la pupilla:

né però sia la vision finita.

Oh! il cieco io sia che, nella sua tranquilla

anima, vede, fin che sa che intorno

a lui c’è qualche aperto occhio che brilla!

Così, quand’io, nel nostro breve giorno,

guardo, e poi, quasi in ciò che guardo un velo

fosse, un’ombra, col lento occhio ritorno

a un guizzo d’ala, a un tremolìo di stelo:

qundo a mirar torniamo anche una volta

ciò ch’arde in cuore, ciò che brilla in cielo;

noi s’è la buona umanità che ascolta

l’esile strido, il subito richiamo,

il dubbio della umanità sepolta:

e le risponde: – Io vivo, sì, viviamo. –

Tempo sarà che tu, Terra, percossa

dall’urto d’una vagabonda mole,

divampi come una meteora rossa;

e in te scompaia, in te mutata in Sole,

morte con vita, come arde e scompare

la carta scritta con le sue parole.

Ma forse allora ondeggerà nel Mare

del nettare l’azzurra acqua, e la vita

verzicherà su l’Appennin lunare.

La vecchia tomba rivivrà, fiorita

di ninfèe grandi, e più di noi sereno

vedrà la luce il primo Selenita.

Poi, la placida notte, quando il Seno

dell’iridi ed il Lago alto e selvaggio

dei sogni trema sotto il Sol terreno;

errerà forse, in quell’eremitaggio

del Cosmo, alcuno in cerca del mistero;

e nello spettro ammirerà d’un raggio

la traccia ignita dell’uman pensiero.

O sarà tempo, che di là, da quella

profondità dell’infinito abisso,

dove niuno mai vide orma di stella;

un atomo d’un altro atomo scisso

in mille nulla, a mezzo il dì, da un canto

guardi la Terra come un occhio fisso;

e venga, e sembri come un elianto,

la notte, e il giorno, come luna piena;

e la Terra alzi il cupo ultimo pianto;

e sotto il nuovo Sole che balena

nella notte non più notte, risplenda

la Terra, come una deserta arena;

e Sole avanzi contro Sole, e prenda

già mezzo il cielo, e come un cielo immenso

su noi discenda, e tutto in lui discenda…

Io guardo là dove biancheggia un denso

sciame di mondi, quanti atomi a volo

sono in un raggio: alla Galassia: e penso:

O Sole, eterno tu non sei – né solo! –

Anima nostra! fanciulletto mesto!

nostro buono malato fanciulletto,

che non t’addormi, s’altri non è desto!

felice, se vicina al bianco letto

s’indugia la tua madre che conduce

la tua manina dalla fronte al petto;

contento almeno, se per te traluce

l’uscio da canto, e tu senti il respiro

uguale della madre tua che cuce;

il respiro o il sospiro; anche il sospiro;

o almeno che tu oda uno in faccende

per casa, o almeno per le strade a giro;

o veda almeno un lume che s’accende

da lungi, e senta un suono di campane

che lento ascende e che dal cielo pende;

almeno un lume, e l’uggiolìo d’un cane:

un fioco lume, un debole uggiolìo:

un lumicino… Sirio: occhio del Cane

che veglia sopra il limitar di Dio!

Ma se al fine dei tempi entra il silenzio?

se tutto nel silenzio entra? la stella

della rugiada e l’astro dell’assenzio?

Atair, Algol? se, dopo la procella

dell’Universo, lenta cade e i Soli

la neve della Eternità cancella?

che poseranno senza mai più voli

né mai più urti né mai più faville,

fermi per sempre ed in eterno soli!

Una cripta di morti astri, di mille

fossili mondi, ove non più risuoni

né un appartato gocciolìo di stille;

non fiumi più, di tanti milioni

d’esseri, un fiato; non rimanga un moto,

delle infinite costellazioni!

Un sepolcreto in cui da sé remoto

dorma il gran Tutto, e dalle larghe porte

non entri un sogno ad aleggiar nel vuoto

sonno di ciò che fu! – Questa è la morte! –

Questa, la morte! questa sol, la tomba…

se già l’ignoto Spirito non piova

con un gran tuono, con una gran romba;

e forse le macerie anco sommuova,

e batta a Vega Aldebaran che forse

dian, le due selci, la scintilla nuova;

e prenda in mano, e getti alle lor corse,

sotto una nuova lampada polare,

altri Cigni, altri Aurighi, altre Grand’Orse;

e li getti a cozzare, a naufragare,

a seminare dei rottami sparsi

del lor naufragio il loro etereo mare;

e li getti a impietrarsi a consumarsi,

fermi i lunghi millenni de’ millenni

nell’impietrarsi, ed in un attimo arsi;

all’infinito lor volo li impenni,

anzi no, li abbandoni all’infinita

loro caduta: a rimorir perenni:

alla vita alla vita, anzi: alla vita!

Io mi rivolgo al segno del Leone

dond’arde il fuoco in che si muta un astro,

alle Pleiadi, ai Carri, alle Corone,

indifferenti al tacito disastro;

ai tanti Soli, ai Soli bianchi, ai rossi

Soli, lucenti appena come crune,

ai lor pianeti, ignoti a noi, ma scossi

dalla misteriosa ansia comune;

a voi, a voi, girovaghe Comete

che sapete le vie del ciel profondo;

o Nebulose oscure, a voi che siete

granai del cielo, ogni cui grano è un mondo:

di là di voi, di là del firmamento,

di là del più lontano ultimo Sole;

io grido il lungo fievole lamento

d’un fanciulletto che non può, non vuole

dormire! di questa anima fanciulla

che non ci vuole, non ci sa morire!

che chiuder gli occhi, e non veder più nulla,

vuole sotto il chiaror dell’avvenire!

morire, sì; ma che si viva ancora

intorno al suo gran sonno, al suo profondo

oblìo; per sempre, ov’ella visse un’ora;

nella sua casa, nel suo dolce mondo:

anche, se questa Terra arsa, distrutto

questo Sole, dall’ultimo sfacelo

un astro nuovo emerga, uno, tra tutto

il polverìo del nostro vecchio cielo.

Così pensavo: e lo Zi Meo guardando

ciò ch’io guardava, mormorò tranquillo:

“Stellato fisso: domattina piove”.

Era andato alle porche il suo pensiero.

Bene egli aveva sementato il grano

nella polvere, all’aspro; e San Martino

avea tenuta per più dì la pioggia

per non scoprire e portar via la seme.

Ma era già durata assai la state

di San Martino, e facea bono l’acqua.

E lo Zi Meo, sicuro di svegliarsi

domani al rombo d’una grande acquata,

era contento, e andava a riposare,

parlando di Chioccetta e di Mercanti,

sopra le nuove spoglie di granturco,

la cara vita cui nutrisce il pane.

18. La tovaglia

Le dicevano: – Bambina!

che tu non lasci mai stesa,

dalla sera alla mattina,

ma porta dove l’hai presa,

la tovaglia bianca, appena

ch’è terminata la cena!

Bada, che vengono i morti!

i tristi, i pallidi morti!

Entrano, ansimano muti.

Ognuno è tanto mai stanco!

E si fermano seduti

la notte intorno a quel bianco.

Stanno lì sino al domani,

col capo tra le due mani,

senza che nulla si senta,

sotto la lampada spenta. –

E` già grande la bambina:

la casa regge, e lavora:

fa il bucato e la cucina,

fa tutto al modo d’allora.

Pensa a tutto, ma non pensa

a sparecchiare la mensa.

Lascia che vengano i morti,

i buoni, i poveri morti.

Oh! la notte nera nera,

di vento, d’acqua, di neve,

lascia ch’entrino da sera,

col loro anelito lieve;

che alla mensa torno torno

riposino fino a giorno,

cercando fatti lontani

col capo tra le due mani.

Dalla sera alla mattina,

cercando cose lontane,

stanno fissi, a fronte china,

su qualche bricia di pane,

e volendo ricordare,

bevono lagrime amare.

Oh! non ricordano i morti,

i cari, i cari suoi morti!

– Pane, sì… pane si chiama,

che noi spezzammo concordi:

ricordate?… E` tela, a dama:

ce n’era tanta: ricordi?…

Queste?… Queste sono due,

come le vostre e le tue,

due nostre lagrime amare

cadute nel ricordare! –

19. La schilletta di Caprona

I

Sonata già l’Avemaria

dalla chiesa di Caprona,

si sente correre via via

la schilletta che risòna.

Il poco viene dopo il tanto;

come là nella capanna:

un pianto ancora, un po’ di pianto,

dopo tanta ninnananna!

II

Un’ombra va col tintinnìo

di quel vecchio campanello;

e l’ombra passa lungo il rio,

gira il piccolo castello,

si ferma un poco ad ogni soglia,

come vuole ancor quel primo

che non si sa chi fu, che voglia;

ch’era Nimo, il vecchio Nimo.

III

Fu quando non c’era la fonte,

né la chiesa né il becchino.

Il suo muletto cadde in monte;

gli lasciò solo il bronzino,

che avea maravigliato i botri

e le polle col suo canto,

quand’egli andava a su con gli otri,

al Saltello, al Lago Santo.

IV

Al suon di questo che, le notti,

nell’immobile abetina

squillava tra i silenzi rotti

dal crocchiar di qualche pina,

che su gli abissi senza voce

mise il suo dondolìo blando;

ognuno fa il segno di croce

che si fa pericolando.

V

O vecchio, o nostro vecchio buono,

or ci sono due campane;

ma quel tuo piccoletto suono

nel castello tuo rimane.

O Nimo, o nostro vecchio Nimo!

or c’è un doppio bello e grave;

ma tu per noi sei stato il primo

a dirci Ave! Ave! Ave!

VI

E noi l’amiamo, il tuo bronzino,

che ci mandi, quando imbruna:

lo mandi per un fanciullino:

io lo vidi a un po’ di luna.

A un raggio pallido lo vidi:

è un ragazzo ch’hai, là, teco:

un garzonetto che ti guidi,

perché forse tu sei cieco.

VII

Lo mandi a noi su la sericcia,

che si chiudono le porte:

ha i piedi scalzi, ma scalpiccia

sopra tante foglie morte;

non parla, ma passando in fretta

sgrolla qualche secco ramo;

per farci udir la tua schilletta

prima che ci addormentiamo.

20. Il primo cantore

I

Il primo a cantare d’amore

chi è?

Non si vede un boccio di fiore,

non ancora un albero ha mosso;

la calta sola e il titimalo

verdeggia su l’acqua del fosso:

e tu già canti, o saltimpalo,

sicceccè… sicceccè…

II

Un ramo non c’è, con due frasche,

per te!

Brulli sono meli e marasche;

forse il mandorlo ha imbottonato:

tu nella vigna sur un palo,

tu sul palancato d’un prato,

d’amore canti, o saltimpalo,

sicceccè… sicceccè…

III

Hai fretta di fare il tuo nido…

perché?

Per un prato gira il tuo grido,

porti a un prato radiche e pappi:

non rischi dunque che sul calo

del verno si vanghi e si zappi!

Eppure gridi, o saltimpalo,

sicceccè… sicceccè…

IV

Hai fretta, sei savio, sai bene

perché!

Viene il maggio, subito viene

la frullana grande che taglia…

Frulla, o falce! Forti su l’ali,

dal nido di musco e di paglia,

frullano i nuovi saltimpali…

sicceccè… sicceccè…

21. La capinera

Il tempo si cambia: stasera

vuol l’acqua venire a ruscelli.

L’annunzia la capinera

tra li àlbatri e li avornielli:

tac tac.

Non mettere, o bionda mammina,

ai bimbi i vestiti da fuori.

Restate, che l’acqua è vicina:

udite tra i pini e gli allori:

tac tac.

Anch’essa nel tiepido nido

s’alleva i suoi quattro piccini:

per questo ripete il suo grido,

guardando il suo nido di crini:

tac tac.

Già vede una nuvola a mare:

già, sotto le goccie dirotte,

vedrà tutto il bosco tremare,

covando tra il vento e la notte:

tac tac.

22. Foglie morte

Oh! che già il vento volta

e porta via le pioggie!

Dentro la quercia folta

ruma le foglie roggie

che si staccano, e fru

partono; un branco ad ogni

soffio che l’avviluppi.

Par che la quercia sogni

ora, gemendo, i gruppi

del novembre che fu.

Volano come uccelli,

morte nel bel sereno:

picchiano nei ramelli

del roseo pesco, pieno

de’ suoi cuccoli già.

E il roseo pesco oscilla

pieno di morte foglie:

quale s’appende e prilla,

quale da lui si toglie

con un sibilo, e va.

Ma quelle foglie morte

che il vento, come roccia,

spazza, non già di morte

parlano ai fiori in boccia,

ma sussurrano: – Orsù!

Dentro ogni cocco all’uscio

vedo dei gialli ugnoli:

tu che costì nel guscio

di più covar ti duoli,

che ti pèriti più?

Fuori le alucce pure,

tu che costì sei vivo!

Il vento ruglia… eppure

esso non è cattivo.

Ruglia, brontola: ma…

contende a noi! Ché tutto

vuol che sia mondo l’orto

pei nuovi fiori, e il brutto,

il secco, il vecchio, il morto,

vuol che netti di qua.

Noi c’indugiammo dove

nascemmo, un po’, ma era

per ricoprir le nuove

gemme di primavera… –

Così dicono, e fru

partono, ad un rabbuffo

più stridulo e più forte.

E tra un voletto e un tuffo

vanno le foglie morte,

e non tornano più.

23. Canzone di marzo

Che torbida notte di marzo!

Ma che mattinata tranquilla!

che cielo pulito! che sfarzo

di perle! Ogni stelo, una stilla

che ride: sorriso che brilla

su lunghe parole.

Le serpi si sono destate

col tuono che rimbombò primo

Guizzavano, udendo l’estate,

le verdi cicigne tra il timo;

battevan la coda sul limo

le biscie acquaiole.

Ancor le fanciulle si sono

destate, ma per un momento;

pensarono serpi, a quel tuono;

sognarono l’incantamento.

In sogno gettavano al vento

le loro pezzuole.

Nell’aride bresche anco l’api

si sono destate agli schiocchi.

La vite gemeva dai capi,

fremevano i gelsi nei nocchi.

Ai lampi sbattevano gli occhi

le prime viole.

Han fatto, venendo dal mare,

le rondini tristo viaggio.

Ma ora, vedendo tremare

sopr’ogni acquitrino il suo raggio,

cinguettano in loro linguaggio,

ch’è ciò che ci vuole.

Sì, ciò che ci vuole. Le loro

casine, qualcuna si sfalda,

qualcuna è già rotta. Lavoro

ci vuole, ed argilla più salda;

perché ci stia comoda e calda

la garrula prole.

24. Valentino

Oh! Valentino vestito di nuovo,

come le brocche dei biancospini!

Solo, ai piedini provati dal rovo

porti la pelle de’ tuoi piedini;

porti le scarpe che mamma ti fece,

che non mutasti mai da quel dì,

che non costarono un picciolo: in vece

costa il vestito che ti cucì.

Costa; ché mamma già tutto ci spese

quel tintinnante salvadanaio:

ora esso è vuoto; e cantò più d’un mese

per riempirlo, tutto il pollaio.

Pensa, a gennaio, che il fuoco del ciocco

non ti bastava, tremavi, ahimè!,

e le galline cantavano, Un cocco!

ecco ecco un cocco un cocco per te!

Poi, le galline chiocciarono, e venne

marzo, e tu, magro contadinello,

restasti a mezzo, così con le penne,

ma nudi i piedi, come un uccello:

come l’uccello venuto dal mare,

che tra il ciliegio salta, e non sa

ch’oltre il beccare, il cantare, l’amare,

ci sia qualch’altra felicità

25. Il croco

I

O pallido croco,

nel vaso d’argilla,

ch’è bello, e non l’ami,

coi petali lilla

tu chiudi gli stami

di fuoco:

le miche di fuoco

coi lunghi tuoi petali

chiudi nel cuore

tu leso, o poeta

dei pascoli, fiore

di croco!

Voi l’acqua di polla

ravvivi, o viole,

non chi la sua zolla

rivuole!

II

Ma messo ad un riso

di luce e di cielo,

per subito inganno

ritorna il tuo stelo

colà donde l’hanno

diviso:

tu pallido, e fiso

nel raggio che accora,

nel raggio che piace,

dimentichi ch’ora

sei esule, lacero,

ucciso:

tu apri il tuo cuore,

ch’è chiuso, che duole,

ch’è rotto, che muore,

nel sole!

26. Fanciullo mendico

Ho nel cuore la mesta parola

d’un bimbo ch’all’uscio mi viene.

Una lagrima sparsi, una sola,

per tante sue povere pene;

e pur quella pensai che vanisse

negl’ispidi riccioli ignota:

egli alzò le pupille sue fisse,

sentendosi molle la gota.

E io, quasi chiedendo perdono,

gli tersi la stilla smarrita,

con un bacio, e ponevo il mio dono

tra quelle sue povere dita.

Ed allora ne intesi nel cuore

la voce che ancora vi sta:

Non li voglio: non voglio, signore,

che scemi le vostra pietà.

E quand’egli già fuor del cancello

riprese il solingo sentiero,

io sentii, che, il suo grave fardello,

godeva a portarselo intiero:

e chiamava sua madre, che sorta

pareva da nebbie lontane,

a vederlo; poi ch’erano, morta

lei, morta! ma lui senza pane.

27. La vite

Or che il cucco forse è vicino,

mentre i peschi mettono il fiore,

cammino, e mi pende all’uncino

la spada dell’agricoltore.

Il pennato porto, ché odo

già la prima voce del cucco…

cu… cu… io rispondo a suo modo:

mi dice ch’io cucchi, e sì, cucco.

Sì, ti cucco, vite, ché sento

già nel sole stridere l’api:

ti taglio ogni vecchio sarmento,

ti lascio tre occhi e due capi.

O che piangi, vite gentile,

perché al vento stai nuda nata?

Se anch’io tra i fioretti d’aprile

sembravo una vite tagliata!

Piangi quello che ti si toglie?

Ma ti cucco, taglio ed accollo,

perché, quando cadon le foglie,

tu abbia un tuo qualche grispollo!

O mia vite… no, o mia vita,

così torta meglio riscoppi!

E poi… com’è buono, alle dita,

l’odore di gemme di pioppi!

E parlare, ritto su loro,

col venuto di là dal mare,

chiedendogli, in mezzo al lavoro,

quant’anni si deve campare!

28. Il sonnellino

Guardai, di tra l’ombra, già nera,

del sonno, smarrendo qualcosa

lì dentro: nell’aria non era

che un cirro di rosa.

E il cirro dal limpido azzurro

splendeva sui grigi castelli,

levando per tutto un sussurro

d’uccelli;

che sopra le tegole rosse

del tetto e su l’acque del rio

cantavano, e non che non fosse

silenzio ed oblìo:

cantavano come non sanno

cantare che i sogni nel cuore,

che cantano forte e non fanno

rumore.

E io mi rivolsi nel blando

mio sonno, in un sonno di rosa,

cercando cercando cercando

quel vecchio qualcosa;

e forse lo vidi e lo presi,

guidato da un canto d’uccelli,

non so per che ignoti paesi

più belli…

che pure ravviso, e mi volgo,

più belli, a guardarli più buono…

Ma tutto mi toglie la folgore…

O subito tuono!

ch’hai fatto succedere a un’alba

piaciuta tra il sonno, passata

nel sonno, una stridula e scialba

giornata!

29. La bicicletta

I

Mi parve d’udir nella siepe

la sveglia d’un querulo implume.

Un attimo… Intesi lo strepere

cupo del fiume.

Mi parve di scorgere un mare

dorato di tremule mèssi.

Un battito… Vidi un filare

di neri cipressi.

Mi parve di fendere il pianto

d’un lungo corteo di dolore.

Un palpito… M’erano accanto

le nozze e l’amore.

dlin… dlin…

II

Ancora echeggiavano i gridi

dell’innominabile folla;

che udivo stridire gli acrìdi

su l’umida zolla.

Mi disse parole sue brevi

qualcuno che arava nel piano:

tu, quando risposi, tenevi

la falce alla mano.

Io dissi un’alata parola,

fuggevole vergine, a te;

la intese una vecchia che sola

parlava con sé.

dlin… dlin…

III

Mia terra, mia labile strada,

sei tu che trascorri o son io?

Che importa? Ch’io venga o tu vada,

non è che un addio!

Ma bello è quest’impeto d’ala,

ma grata è l’ebbrezza del giorno.

Pur dolce è il riposo… Già cala

la notte: io ritorno.

La piccola lampada brilla

per mezzo all’oscura città.

Più lenta la piccola squilla

dà un palpito, e va…

dlin… dlin…

30. Il ritorno delle bestie

Non sul pioppo picchia il pennato

più, né l’eco più gli risponde.

L’erta sale un uomo celato

dal carico folto di fronde.

E il martello d’un legnaiuolo,

più lontano, più non rimbomba.

Passa il grido d’un bimbo solo:

Turella! Bianchina! Colomba!

Porta in collo l’erba ch’ha fatta,

nella sua crinella di salcio.

Le sue bestie al greppo, alla fratta,

s’indugiano, al cesto ed al tralcio.

Ei che vede sopra ogni tetto

già la nuvola celestina,

le minaccia col suo falcetto:

Colomba! Turella! Bianchina!

C’è un falcetto lucido ancora

su la Pania, al fior del sereno,

dentro l’aria dolce ch’odora

d’un tiepido odore di fieno.

C’è silenzio lassù, dov’erra

quel falcetto con qualche stella.

Solo il bimbo strilla da terra:

Bianchina! Colomba! Turella!

31. La figlia maggiore

Ninnava ai piccini la culla,

cuciva ai fratelli le fasce:

non sapeva, madre fanciulla,

come si nasce.

Nel cantuccio, zitta, da brava,

preparava cercine e telo

pei bimbi che mamma le andava

a prendere in cielo.

Or cantano i passeri intorno

la piccola croce, in amore…

ché lo seppe, misera, un giorno,

come si muore!

L’erba è verde, piena di grilli.

Non un passo, non una voce

mai. Vivono, loro, tranquilli

intorno la croce.

Si beccano, s’amano, pascono,

in mezzo a quel pieno di cose

e di silenzio, dove il verbasco

fa tra le rose.

No, passeri! su le sue zolle,

no! non fate tanto vicino!

Là fitto di bianche corolle

è il pero e il susino.

Andate su l’albero in fiore

che al vento si dondola e culla!

Non turbate l’umile cuore

che non sa nulla!

Passa il vento come un respiro

caldo, lungo, dolce, che porta

su l’alito il polline in giro…

sopra la morta.

No, vento d’aprile, no, vento

d’amore, no tanto vicino!

Là nei campi bacia il frumento,

soffia tra il lino!

Fa che venga l’anima ai cardi,

che le viti tengano il raspo:

fa che abbiano l’accia, più tardi,

il guindolo e l’aspo!

Ma l’erba qui prima del fiore,

ma il fiore qui prima del seme,

la frullana taglia, e due ore

sibila e freme.

Un vecchione falcia e raduna

l’erbe e i fiori di primavera;

poi tutto egli brucia, là, una

limpida sera:

la sera, una sera di maggio,

che s’odono tanti stornelli

di sui gelsi, e sente, il villaggio,

di filugelli.

Dal villaggio vedon la fiamma

ch’arde sola, rossa, in quel canto:

la vedono gli occhi di mamma

pieni di pianto.

Oh! piange, ché il vecchio le toglie

qualcosa più che le togliesse:

fili d’erba, piccole foglie,

povera mèsse,

fioritura, sì, bianca e rossa,

della bimba, che non lo sa:

sua sola, laggiù, nella fossa,

maternità.

32. L’usignolo e i suoi rivali

Egli coglieva ed ammucchiava al suolo

secche le foglie del suo marzo primo

(era il suo nuovo marzo), il rosignolo,

per farsi il nido. E gorgheggiava in tanto

tutto il gran giorno; e dolce più del timo

e più puro dell’acqua era il suo canto.

Cantava, quando, per le valli intorno,

cu… cu… sentì ripetere, cu… cu…

Ecco: al cuculo egli cedette il giorno,

e di giorno non volle cantar più.

Non più di giorno. Ma la notte! Appena

la luna estiva, di tra l’alabastro

delle rugiade, tremolò serena,

riprese il verso; e d’ora in poi soltanto

cantava a notte; e lucido com’astro

e soave com’ombra era il suo canto.

Cantava, quando, da non so che grotte,

sentì gemere, chiù… piangere, chiù…

All’assiuolo egli lasciò la notte,

anche la notte; e non cantò mai più.

Or né canta né ode: abita presso

il brusìo d’una fonte e d’un cipresso.

33. Il fringuello cieco

Finch… finché nel cielo volai,

finch… finch’ebbi il nido sul moro,

c’era un lume, lassù, in ma’ mai,

un gran lume di fuoco e d’oro,

che andava sul cielo canoro,

spariva in un tacito oblìo…

Il sole!… Ogni alba nella macchia,

ogni mattina per il brolo,

– Ci sarà? – chiedea la cornacchia;

– Non c’è più! – gemea l’assiuolo;

e cantava già l’usignolo:

– Addio, addio dio dio dio dio…

Ma la lodola su dal grano

saliva a vedere ove fosse.

Lo vedeva lontan lontano

con le belle nuvole rosse.

E, scesa al solco donde mosse,

trillava: – C’è, c’è, lode a Dio! –

Finch… finché non vedo, non credo”

però dicevo a quando a quando.

Il merlo fischiava – Io lo vedo -;

l’usignolo zittìa spiando.

Poi cantava gracile e blando:

– Anch’io anch’io chio chio chio chio…

Ma il dì ch’io persi cieli e nidi,

ahimè che fu vero, e s’è spento!

Sentii gli occhi pungermi, e vidi

che s’annerava lento lento.

Ed ora perciò mi risento:

– O sol sol sol sol… sole mio? –

34. La canzone dell’ulivo

I

A’ piedi del vecchio maniero

che ingombrano l’edera e il rovo;

dove abita un bruno sparviero,

non altro, di vivo;

che strilla e si leva, ed a spire

poi torna, turbato nel covo,

chi sa? dall’andare e venire

d’un vecchio balivo:

a’ piedi dell’odio che, alfine,

solo è con le proprie rovine,

piantiamo l’ulivo!

II

l’ulivo che a gli uomini appresti

la bacca ch’è cibo e ch’è luce,

gremita, che alcuna ne resti

pel tordo sassello;

l’ulivo che ombreggi d’un glauco

pallore la rupe già truce,

dov’erri la pecora, e rauco

la chiami l’agnello;

l’ulivo che dia le vermene

pel figlio dell’uomo, che viene

sul mite asinello.

III

Portate il piccone; rimanga

l’aratro nell’ozio dell’aie.

Respinge il marrello e la vanga

lo sterile clivo.

Il clivo che ripido sale,

biancheggia di sassi e di ghiaie;

lo assordano l’ebbre cicale

col grido solivo.

Qui radichi e cresca! Non vuole,

per crescere, ch’aria, che sole,

che tempo, l’ulivo!

IV

Nei massi le barbe, e nel cielo

le piccole foglie d’argento!

Serbate a più gracile stelo

più soffici zolle!

Tra i massi s’avvinchia, e non cede,

se i massi non cedono, al vento.

Lì, soffre, ma cresce, né chiede

più ciò che non volle.

L’ulivo che soffre ma bea,

che ciò ch’è più duro, ciò crea

che scorre più molle.

V

Per sé, c’è chi semina i biondi

solleciti grani cui copra

la neve del verno e cui mondi

lo zefiro estivo.

Per sé, c’è chi pianta l’alloro

che presto l’ombreggi e che sopra

lui regni, al sussurro canoro

del labile rivo.

Non male. Noi mèsse pei figli,

noi, ombra pei figli de’ figli,

piantiamo l’ulivo!

VI

Voi, alberi sùbiti, date

pur ombra a chi pianta ed innesta;

voi, frutto; e le brevi fiammate

col rombo seguace!

Tu, placido e pallido ulivo,

non dare a noi nulla; ma resta!

ma cresci, sicuro e tardivo,

nel tempo che tace!

ma nutri il lumino soletto

che, dopo, ci brilli sul letto

dell’ultima pace!

35. Passeri a sera

L’uomo che intende gli uccelli, i gridi

dei falchi, i pianti delle colombe,

ciò che le cincie dicono ai nidi,

e il chiù, che vuole più dalle tombe;

siede a un cipresso. Passa, e lavora

sempre, un aratro, là, là, soletto,

con qualche voce ruvida. E` l’ora

che vanno i bruni passeri a letto.

Chi vien dal monte, chi vien dal piano:

tutti al cipresso. Cantano: – Sì…

Ora, sebbene tu non ti scopra,

sappiamo quanto buono tu fossi

ponendo pietra su pietra, e sopra

facendo un tetto d’embrici rossi.

Per chi? Per questi passeri… E` breve,

di verno, il giorno, la notte è lunga:

tu vuoi che prima ci esca la neve,

tu vuoi che il sole prima ci giunga.

Le case fece la tua gran mano

pei tetti, e i tetti per noi coprì.

Hai cibi grati per noi, che sono

grandi pel nostro piccolo becco:

giorno per giorno, rompi tu buono

con i tuoi denti stessi il pan secco;

spargi le bianche briciole, scuoti

la bianca tela; le spazzi fuori;

ma un po’ lontano, come è nei voti

di questi buoni tuoi peccatori;

che, sì, vediamo tutto da un ramo,

lieti, ma in cuore timidi un po’.

Ed altro pensi, che spetrerebbe

tra l’alte nubi l’aquila e il falco!

Tu prendi, appena sai che ci crebbe

famiglia, i chicchi d’oro dal palco;

esci all’aperto; spargi quei chicchi,

prodigo e cauto, tra due filari;

anzi, a che l’oro meglio ne spicchi

su quel pulito, v’erpichi ed ari.

E noi da un ramo, comodi, udiamo

quelle tue lunghe grida, Bi… Ro…

Vero che a volte ce li nascondi,

quei chicchi; vero; ma fai per giuoco.

Ma ecco, a volte son così fondi,

che noi diremmo, Badaci un poco!

Pure il tuo male mai non fa male:

quelli che copre l’invida zappa,

poi, col frinire delle cicale,

mettono un gambo, fanno una rappa:

che poi ci sgrani… Dal male il bene:

bene che nasce, male che fu. –

Ma già i minori dormono. Soli

vegliano i vecchi. C’è chi sospira:

– Ahimè! talvolta di noi ti duoli!

Sei giusto, eppure grave nell’ira.

Or che i novelli tengono i capi

sotto le alucce, vicino al cuore,

lo dico, mentre tacciono l’api,

le mosche, i ragni, tutto: si muore!

Tu ci vuoi bene, certo… ma il bene

tuo lo vorremmo per un po’ più… –

E` già nell’ombra tutta la valle:

sui monti un raggio trema del giorno.

Già le notturne grandi farfalle,

coi neri teschi, ronzano intorno.

– Oh! quel diluvio con che noi vivi

tu pigli, grandi, piccoli, troppi!

Oh! quel baleno con che ci arrivi

fino su l’alte cime dei pioppi!

Ma da te viene ciò che ci piace:

forse anche questo ci piacerà. –

Dormono. L’uomo parte. Il cipresso

freme di nuovi brevi bisbigli.

– C’era non visto dunque sì presso!?

Su, la zampina… non c’è più, figli! –

Va l’uomo, e nero tu nell’azzurro,

cipresso pieno d’anime, affondi.

Va l’uomo, ed ora bada al sussurro

che fan tra loro fievole i mondi,

su, fitti fitti, piccoli, in pace,

nell’infinita serenità.

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