
APPENDICE 2 – EPICURO
Epicuro, il filosofo di Samo, trascorse la vita durante il fosco e sanguinoso tramonto di una civiltà. Sotto la dura mano dei generali di Alessandro, tiranni brutali, oppressori di ogni libertà, la polis greca agonizzava lentamente, mentre in Oriente sorgevano le grandi monarchie assolutiste e burocratiche dell’età ellenistica.
Lacerata dalle guerre interne, talvolta nelle contese feroci dei Diadochi, la Grecia precipitava nell’ultima rovina. Orde di mercenari avidi e sanguinari la percorrevano devastandola, introducendovi le superstizioni e depravazioni orientali, l’amore del fasto, l’abito della violenza. L’antica gentilezza scomparve e fece posto a una febbre furiosa di piaceri, ad un’estrema grossolanità di costumi ed abbiezione del carattere. Gli Ateniesi, un tempo così fieri della loro libertà, toccarono il fondo della vigliaccheria deificando, ancora vivo, Demetrio Poliorcete e consacrando templi alle sue cortigiane. Fu allora che alcuni nobili spiriti di quell’età sfortunata si ritrassero disgustati nel segreto dei loro studi, disertando sdegnosi un mondo ormai condannato senza scampo.
Come tutte le filosofie di quella torbida età, anche la filosofia di Epicuro è orientata verso la pratica. Il problema che la preoccupa esclusivamente ed alla soluzione del quale tutto essa subordine come mezzo a scopo è il problema della felicità. In che consiste la felicità e come può l’uomo venirne in saldo e duraturo possesso?
Come gli Scettici e gli Stoici, anche Epicuro ripone la felicità nella calma, nella libertà interiore, nella tranquillità, nella imperturbabilità dello spirito, nella Saggezza, cioè nell’assoluto affrancamento di esso da tutto ciò che, non dipendendo da lui ed appartenendo al mondo esteriore, lo metterebbe – se perseguito come scopo della vita – nella servitù di questo, cioè della Fortuna. Ritirarsi in sé stesso, vivere concentrato, arrotolato in sé, come palla liscia su cui non è possibile presa alcuna, ecco l’ideale della vita: parole di Marco Aurelio, ma che rispecchiano a meraviglia l’ideale etico di Epicuro. È questa la direzione nella quale Epicuro cerca l’assoluto della vita, è questo il motivo dominante della filosofia epicurea: ad Epicuro spetta di buon diritto l’appellativo di liberatore, che Goethe si compiaceva di attribuirsi.
Nessun filosofo greco ha sentito con tanta forza quanto lui lo spirito umano come libertà, cioè come potenza infinita di affrancazione di sé da tutto ciò che gli è esteriore: in nessun filosofo greco l’ideale della Saggezza, tenacemente perseguito dallo spirito greco, trovò così limpida e potente affermazione.
Poiché sarebbe follia sperare di conseguire l’imperturbabilità dell’animo finché il timore della morte e dell’al di là e le credenze superstiziose nell’intervento arbitrario degli Dei nella cose di questo mondo seguiteranno ad agitarlo, urge anzitutto, secondo Epicuro, liberar l’uomo dal timore della morte e dalla superstizione. È necessario, perciò, dimostrare che tutto nel mondo procede per cause meccaniche e corporee, senza intervento alcuno di entità soprannaturali, senza preoccupazione alcuna di fini o disegni da realizzare. L’atomismo di Democrito, che tutto riduce ad atomi ed a movimento, forniva già pronta la dimostrazione, ed Epicuro se ne appropriò per intero.
Ma la ricerca delle leggi naturali, opera lenta, faticosa, difficile, non è, a sua volta, per l’uomo causa di perturbazioni e dolori?
Certo, risponde Epicuro. Ma per la tranquillità dell’animo importa soltanto sapere che in natura tutto succede per cause meccaniche: quali poi esse siano in ciascun caso singolo e determinato, è impossibile sapere e, per la felicità, nulla importa saperlo. Ostinarsi a trovare la causa meccanica che sola è la vera in un tempo e luogo determinati conduce a presupposti arbitrari ed a perdere la quiete dello spirito. Studiare le scienze oltre il tanto che serve alla pratica quotidiana della vita è inutile e nocivo. “Fuggi, o caro, la scienza a piene vele”, scriveva Epicuro a Pitocle. Ma se la fisica ci dimostra che tutto accade per cause meccaniche, cioè per combinazioni e movimenti di atomi, e così ci libera dai terrori della superstizione, non ci asserve essa, d’altro canto, alle ferree leggi della Natura? Il determinismo assoluto dei fenomeni non esclude forse radicalmente la libertà umana? Se così fosse, esclama Epicuro, meglio gli Dei del volgo che il Destino, chè , almeno, gli Dei si piegano alle preghiere, ma il Destino è inesorabile! Nondimeno, – così, su per giù, si può ricostruire il ragionamento di Epicuro – è un fatto innegabile di esperienza interna che noi siamo liberi. E poiché l’animo è un concilio di atomi e tutti i suoi stati si riducono a moti atomici, che esso sia libero vuol dire semplicemente che gli atomi che lo compongono possono muoversi spontaneamente nel modo e nella direzione che loro più piace. Ma poiché gli atomi di cui è fatto l’animo umano non sono di specie diversa da quelli di cui sono fatti i corpi, ciò conduce ad ammettere in ogni atomo una facoltà di moto spontaneo e senza causa, in violazione di tutte le leggi della natura. È il famoso Clinamen epicureo, oggetto nella stessa antichità delle beffe più atroci. Noi, moderni, ammiriamo l’intrepidità impareggiabile del pensatore che, comprendendo l’assurdo di una libertà umana in una natura schiava del Destino, sparge a piene mani nel mondo la libertà.
In che consiste la felicità dell’uomo? Nel piacere, risponde Epicuro. Non v’è altro bene che il piacere; altro male che il dolore. Ma che cosa è il piacere? Vi sono due specie di piaceri: il piacere in movimento, quello cioè che accompagna la soddisfazione di un bisogno (mangiare quando si ha fame; bere quando si ha sete; dormire quando si ha sonno, e così via), ed il piacere in riposo, cioè lo stato fisico-psichico di benessere che segue al bisogno soddisfatto, e che risulta dalla salute, dall’equilibrio degli organi. Il vero piacere, al possesso del quale l’uomo deve mirare, è, non già il piacere in movimento, che è preceduto sempre da uno stato di bisogno, cioè di sofferenza, ma il piacere in riposo, la calma profonda che segue al dolore rimosso, al bisogno soddisfatto. La felicità consiste nel possesso duraturo di quel sentimento – poco intenso, se si vuole, ma reale e positivo – di calmo e riposato benessere, che segue al bisogno soddisfatto. L’uomo la raggiunge rinunciando a tutti i desideri non naturali e non necessari che agitano e turbano lo spirito, e limitandosi a soddisfare i bisogni strettamente necessari. Un po’ di pane e di acqua bastano a tenere il corpo in perfetta salute, a dargli il massimo piacere di cui può godere, a rendere l’uomo eguale a Zeus. “Sia grazia alla beata Natura, che il necessario fece agevole, il disagevole non necessario”.
La filosofia è necessaria per dimostrare all’uomo che la felicità cercata nella soddisfazione di altri desideri che quelli naturali e necessari è irraggiungibile, perché quei desideri, versando nell’illimitato, assoggettandolo al mondo esterno, tolgono allo spirito la tranquillità che viene dalla sua compiutezza interiore, cioè dall’avere in sé stesso tutto ciò di cui ha bisogno.
Partito dal principio che “radice di ogni piacere è il ventre”, Epicuro, con perfetta coerenza logica, spinto dall’esigenza profonda dello spirito greco, giunge alla formulazione di un’etica di quasi assoluta rinuncia. A ragione Seneca lo chiamava un eroe mascherato da donna.
Un po’ di pane e d’acqua bastano a fare dell’uomo l’eguale degli Dei. Pane e acqua sono facili da trovare; eppure, non sempre si trovano. La catena che lega l’uomo al mondo esteriore è ridotta da Epicuro tenue come un filo; eppure, quel filo esiste ancora. Il saggio può non trovare il pane e l’acqua di cui egli ha bisogno per la sua divina felicità, può cadere malato, ed allora dove se ne va la felicità? La felicità del saggio – incalza Epicuro – dipende esclusivamente da lui: anche in mezzo ai più crudi dolori il saggio può attaccarsi con tanta forza ai ricordi del piacere del passato ed alla speranza del piacere avvenire da rendere attuale e presente il piacere goduto e sperato, così da distruggere del tutto la sensazione del dolore presente. Anche chiuso nel toro di Falaride e arso a fuoco lento, egli può godere della più perfetta felicità e nulla invidiare a Zeus: onde Carneade sbeffeggiava il saggio epicureo che, afflitto da gotta, corre a sfogliare le sue efemeridi, per vedere quante volte è giaciuto con la cortigiana Leonzio e consolarsi, col dolce ricordo, delle presenti sofferenze. Vi è qualcosa di grottesco e, insieme, di sublime e commovente nello sforzo di Epicuro per sottrarre l’uomo dalla dipendenza del mondo esterno e – fragile com’è – farlo simile a Dio, e ciò partendo da principi che sembrerebbero doverlo condurre a risultati completamente opposti.
Nessun filosofo ha mai deificato l’uomo quanto Epicuro. Nessuno ha mai spinto tanto oltre il fanatismo della libertà interiore. La sua morale si potrebbe definirla un edonismo ascetico.
Se la religiosità è il senso di dipendenza dell’uomo da realtà di ordine superiore, Epicuro è il filosofo più irreligioso che sia mai esistito. Egli non si piega nemmeno davanti alla morte: questa, disperdendo gli atomi che compongono l’anima, annienta, sì, l’individualità, ma non diminuisce la felicità. Il piacere puro di dolore ha in sé una pienezza che lo rende indipendente dal tempo: è un assoluto, e la durata maggiore o minore nulla aggiunge alla sua intensità. Dall’eternità in cui non saremo più dobbiamo curarci tanto poco di quella in cui non eravamo ancora. Finché viviamo, la morte non c’è; e quando la morte c’è, siamo noi che non ci siamo più. Tra essa e noi non c’è contatto possibile, e la sua gelida mano non tocca né i vivi né i morti.
Queste dottrina dal 306 al 270 a. C. Epicuro insegnò ad Atene, in una casetta circondata da un giardino, dove trascorreva il giorno familiarmente conversando con i discepoli, che in folla accorrevano a lui, e tra i quali erano alcune delle celebri cortigiane del tempo. In seno ad essi, che molto l’amavano per l’umanità del carattere, trascorse placida la vita, specchio fedele della sua filosofia. Attorno a lui il suolo della Grecia tremava per un terremoto continuo: tra rivoluzioni, guerre, calamità senza fine, la Grecia classica andava lentamente inabissandosi. Nella pace dle suo giardino, Epicuro vedeva con occhio indifferente sorgere e crollare repubbliche ed imperi. “Nascondi la tua vita”, era la sua massima.
Gli storici della filosofia rimproverano a lui, come agli Stoici, l’allontanamento dalla vita politica, e vedono in esso un sintomo dell’infiacchimento della cultura e del pensiero greco. “Non più si debbono salvare i Greci, né in gara di sapienza si devono strappar loro corone”, esclamava con un sospiro di sollievo Metrodoro, il discepolo prediletto di Epicuro. Gli storici della filosofia sono scandalizzati da queste ciniche parole. E non comprendono che, appunto perché seppero abbandonare a tempo al suo destino una civiltà ormai crollante e si rifiutarono di legare i tesori spirituali accumulati dal genio dell’antica Grecia alle forme politiche della Grecia classica, quei grandi spiriti furono in grado di salvare quei tesori dal naufragio politico, economico e sociale in cui questa andò sommersa. Alla serena indifferenza con cui essi assistettero agli sconvolgimenti politici dei loro tempi l’umanità è debitrice della conservazione della cultura greca, che sarebbe andata perduta, se, ritirandosi dalla vita pubblica, essi non l’avessero per ciò stesso posta al riparo dalle mutevoli vicende di questa.
– – –
LA VISIONE GRECA DELLA VITA – Tutte le parti
ADRIANO TILGHER – Tutte le opere pubblicate su Cultura Libera
ADRIANO TILGHER – Biografia su Wikipedia.
— — —