2. LA NUOVA FOLLA DI MOSCA.
Mosca è piena di un movimento denso, umile e pacato. La sua animazione è sul marciapiede. Il centro della strada langue. Rare vetture solcano il vuoto fra masse di pedoni. Si direbbe che un effetto della rivoluzione sia stato quello di appiedare la Russia.
Sulla neve calpestata e sporca, lungo le basi degli edifici si muove una moltitudine oscura, ordinata, coperta di vecchi, poveri e logori indumenti. Porta l’uniforme della miseria. È una folla grave e taciturna. Il suo silenzio fa pensare agli affollamenti della cinematografia pre-sonora.
Se rivolgete la parola ad un passante, questi affretta il cammino fingendo di non udire e di non vedere. Si indovinano in questa gente diffidenze vaghe, le preoccupazioni di non farsi notare, di evitare contatti ignoti, di confondersi nella massa. Ognuno pare si senta osservato, vigilato, spiato, sospettato. Parlare con uno straniero è pericoloso. Sappiamo di persone che sono scomparse per aver frequentato un’ambasciata. La gente si sorveglia, timida, assorta, silenziosa. Docilmente, al minimo intoppo la si ferma e aspetta. Non osa spingere. Forma automaticamente la fila, per abitudine, anche per comprare un giornale.
Questa impassibile povertà umana contrasta singolarmente con la grandiosità un po’ logora e deteriorata ma nobile, degli edifici, con il profilo sontuoso ed orientale della città che si solleva nobilmente a cuspidi e cupole contro al cielo grigio. Sulle torri italiane del Cremlino, guardiane di un gregge di chiese e palazzi, le vecchie aquile imperiali spiegano ancora intatte le loro grandi ali araldiche di ferro. Gli antichi simboli del dominio rimangono sulle vette di questo strano paese.
Quasi ogni passante porta un umile fardello. Involti, sacchi, cesti, pacchi, valigie, oscillano nella folla come i chicchi di grano in un formicaio. Ogni individuo va per conto suo. Hanno tutti l’aria di emigrare in direzioni opposte con il loro piccolo bagaglio. Le distanze sono enormi; nei tramways, veicoli egualitari ma insufficienti, è difficile trovare un posto; ed uscire di casa significa mettersi in viaggio. All’apparenza, la vita esteriore di Mosca si svolge sotto le forme di una grande marcia, monotona, penosa, incessante, opprimente come una cosa vista nell’incubo.
La folla ha in genere un aspetto campagnolo, rude e mansueto. Non differisce da molto da quello che era, agli occhi dello straniero, l’estremo bordo, neutro e confuso, del paesaggio sociale della Russia. Sfuggiva quasi all’attenzione, come un elemento accessorio e caratteristico sul quale prendeva rilievo un’altra vita che occupava il centro della scena, la protagonista, varia, clamorosa, pittoresca, rituale, opulenta, raffinata, educata, colta, frivola e potente, progredita e feudale: la vita della grande società che dava a Mosca un tono di sontuosità elegante e barbarica. Essa è scomparsa dal quadro, è stata cancellata, ed è rimasto il fondo, che non era mai stato guardato bene, cupo, diffuso, immenso, che ha invaso tutto.
Perciò il marciapiede è gremito ed il centro della strada è quieto. Sono spariti i cavalli, che erano l’orgoglio di Mosca, sparite le slitte tintinnanti e le troike festose, spariti gli “isvoscik” mastodontici dalla tulupa verde ed i bottoni d’oro, sparite le vetture private d’ogni genere, e sono spariti gli usi, le idee, gl’interessi, le tradizioni, le foggie, le ricchezze, le mode, che questo traffico trasportava. Persino i colletti bianchi ed i cappelli di feltro sono scomparsi, sospetti di borghesismo. Circolano in numero moderato alcune superbe automobili, ma bisogna avere un’alta carica sovietica od essere stranieri per andarvi dentro. La strada offre una sintesi della trasformazione sociale della Russia.
La rivoluzione non ha spodestato: ha divorato.
La distruzione completa della vecchie classi dirigenti, le classi del dominio, della proprietà, degli affari, si spiega con l’estrema sottigliezza di questa crosta di signorie e di caste distaccata dal popolo. Essa deteneva quasi tutta la ricchezza del Paese. Un terzo del territorio coltivato dell’impero apparteneva a 699 signori; 62 milioni di ettari si trovavano nelle mani di 27.000 proprietari fondiari. Novanta milioni di contadini erano ancora praticamente servi della gleba. Crollata la soprastruttura del potere è apparso un oceano di diseredati rimasti ai primordi della storia. Qualsiasi soffio lo avrebbe sollevato a tempesta. La tempesta è venuta ed ha tolto tutto a tutti. È stata la rivoluzione del diseredamento universale.
Come allo spezzarsi di dighe e di argini, ai primi anni del bolscevismo marosi umani si levarono dalle campagne e irruppero nelle città, nei recinti privilegiati ai quali era riserbato il poco pane disponibile, vi dilagarono, vi si fermarono, vi si calmarono. Fu all’epoca delle guerre civili, delle stragi, delle devastazioni. La Russia fu percorsa da bufere umane di cui non vi è esempio nel mondo. A mano a mano che le requisizioni sovietiche e le persecuzioni bianche e rosse creavano la carestia, si formavano esodi di turbe fameliche verso i centri urbani.
Le armate bianche, accecate da uno spirito di vendetta che si sfogava in persecuzioni di cui i contadini erano le prime vittime, avanzavano da ogni parte. Il Governo sovietico ricorreva alle supreme risorse del terrore e del fanatismo e lanciava le armate rosse ad una guerra senza quartiere, spietata, atroce, inesorabile. L’orrore rispondeva all’orrore, la ferocia alla ferocia.
La “Ceca” teneva il Paese sotto ad una vigilanza mitragliante, era una macchina di sterminio che scattava al sospetto. Più di due milioni di russi fuggivano all’estero mentre il bolscevismo spazzava con la mitraglia e con la fame classi e ranghi.
Vien fatto di ricordare la “scopa” che fu l’emblema degli “oprisenikis” di Ivan il Terribile – i primi predecessori della “Ceca” e della “Ghepèu” – orde di sbirraglia con sei settimane di massacri insegnarono alla vecchia repubblica di Novgorod a venerare lo zar (ed è singolare che questo simbolo di persecuzione inesorabile sia risorto in una scopa d’argento offerta dai capi comunisti a Stalin, per glorificare la sua implacabile lotta di cancellazione contro i suoi avversari Trozkisti).
I grandi sussulti della Russia sono stati sempre accompagnati da vampate di annichilimento, vaste come incendi di foreste. Per quattro anni la Russia è stata lo sconfinato teatro di un’epopea ciclonica, la cui grandezza truce, selvaggia, inimmaginabile, è ricca di eroismi e di infamie. Di essa a noi non è che arrivato un bagliore.
Basta ricordare che questo cataclisma apocalittico di fuoco e di sangue ha rovinato 21.250 chilometri di ferrovia, cancellandone in alcuni luoghi le traccie a tale punto che si sono visti contadini seminare il grano dove erano state le rotaie, per avere un’idea dell’immensità dell’uragano sociale che ha imperversato sulla Russia, schiantando ogni vestigia del passato. Persino la parola “Russia” è scomparsa, condannata come reazionaria. Non si dice più che U.R.S.S.: una sigla che cancella i confini con l’intenzione di includere eventualmente il resto del mondo.
In quel sinistro periodo di lotte fiammanti e di crudeltà glaciali quando su tutta la terra russa si determinarono spostamenti di masse, emigrazioni di gente in cerca di pane, o di pace, o di bottino, rigurgiti di umanità disperata ed esasperata. Mosca fu una delle mete di queste carovane di miseria che nulla teneva sulla loro terra, attirate dalle città accaparratrici di grano e di comando.
Così Mosca, che aveva nel 1917, all’inizio della rivoluzione, un milione e mezzo di abitanti, ne ha ora oltre tre milioni e settecento mila, benché centinaia di migliaia dei suoi vecchi abitanti siano spariti, fuggiti o massacrati, o morti di fame.
Si sente questa saturazione campagnola nella folla. È denunziata dai vestiti – che sono la cosa più difficile a rinnovarsi in questi tempi – dagli enormi stivali di feltro deformati e dalle lacere pelliccette di capra fatte a gonnella. Ed è denunziata dall’abbondanza di visi tondi, di zigomi sporgenti, di occhi mongoli, dalla quieta andatura e dal mutismo. È una folla che ha le lentezze e le timidità dell’intruso e quella impassibilità taciturna della gente abituata ad essere sepolta dall’inverno per sette mesi all’anno.
Questa nuova popolazione di Mosca viene da ogni regione, e in parte notevole dalle pianure del Volga; gente che ha lasciato le steppe del sud o le tundre del nord, o la taiga dell’est; una moltitudine che ricorda l’Asia nelle fisionomie e nelle foggie, masse rozze, attonite, stracciate, le quali fanno pensare ad una invasione barbarica che abbia conquistato una capitale straniera scacciandone o trucidandone gli abitanti.
Il nomadismo è un istinto caratteristico del popolo russo. Viene forse dall’idea che “altrove” si stia meglio, idea che hanno tutti quelli che stanno male. Viene anche dalla natura del paese, aperto, senza argini di monti, un mare di terra sul quale sorge il bisogno di navigare. E viene probabilmente dalla mancanza di vincoli, di proprietà, di interessi legati al suolo, da quella sete di terra che ha mosso tutte le grandi emigrazioni primitive: sete di terra propria. Il popolo russo è andato sempre alla ricerca di una sua Russia. Sembra condannato a non trovarla mai.
Nessuna invasione, nessuna guerra, nessuna rivoluzione, ha nell’occidente sradicato il contadino dai suoi campi. Ma qui il contadino era già sradicato nell’enorme maggioranza dei casi. In Russia, appena uno sconvolgimento politico spezza i vecchi controlli, correnti umane straripano come acqua alla rottura di un argine.
Fu appunto per fissare sul suolo questi eterni nomadi, e creare una permanenza del lavoro campestre che garantisse le coltivazioni sulle possessioni dei nobili e della corona, che quattro secolo fa gli zar decretarono la servitù della gleba. Ora questa schiavitù è tornata, più dura e più crudele.
Per fermare gl’impulsi vagabondi delle masse il bolscevismo è ricorso agli stessi metodi di Ivan il Terribile e di Boris Godunow.
Si è stabilito un passaporto interno che inchioda. Nessuno può muoversi senza permesso. L’operaio è legato all’officina e il contadino alla “collettivizzazione”.
La propaganda sovietica dà a queste severità il colore di una disciplina al servizio del proletariato, ma è il ritorno della schiavitù. La schiavitù della macchina si è aggiunta a quella della gleba. Guai a chi si muove. Non ci si muove che per ordine, con scontrini, ricevute e controlli, come un pacco postale. Una strana forza di eventi impone la comunismo misure del passato, le più crudeli, le più barbare, le più anacronistiche.
È anche possibile che non vi siano molti modi per governare la Russia.
Questo popolo ha qualità e virtù grandi, può evolvere rapidamente, possiede nella sua stessa immaturità civile le forze di una possente verginità, fatta di fervore, di ingenuità, di speranze, di assenza di precedenti e di consuetudini in fatto di progresso, come le forze del pionierismo al quale l’America deve la sua grandezza ed i suoi slanci. Ma è rimasto indietro di epoche.
Le classi dirigenti, incipriate di modernità non erano della sua stoffa. Erano piuttosto “razze” dirigenti. Costituivano una stratosfera di dominazione. Il popolo era lontano da loro, distaccato e dissociato, come le mandrie dai pastori. Esso non creava la propria storia: la subiva. Una storia di congiure, di pronunciamenti pretoriani, di feudalismi boiardi, di dispotismi, di conquiste, di grandi zar e di zar imbecilli che hanno finito per dormire insieme, uno a fianco all’altro, venerati e santificati anche dopo essere stati assassinati, nei sarcofaghi della Cattedrale dell’Arcangelo.
È stata una immensa tragedia di stampo asiatico nella quale il popolo non è mai intervenuto se non per acclamare e obbedire, ed eventualmente per farsi impiccare dopo una futile sommossa.
La Russia è sempre stata governata come un paese di conquista.
La civiltà europea è arrivata dove è arrivata Roma, con il Fascio o con la Croce. La Russia non ha mai subito l’influenza del pensiero e della legge romana. Gli slavi sono comparsi alle frontiere dell’Europa quando Roma era caduta. Hanno preso la religione da Bisanzio e il governo da Tamerlano. Noi vivevamo in pieno Rinascimento quando la Russia era una fedele provincia della Mongolia. Perciò la sua formazione sociale ha conservato tipici aspetti dell’Oriente, e tutto quello che vi viene ha sempre un sapore tartaro, anche quando si crede di dargli un gusto americano.
Mentre in Europa la partecipazione del popolo e il benessere del popolo, per eredità romana, non solo non possono essere estranei all’idea di governo, ma sono una ragione del governo, la Russia è stata retta da una specie di satrapismo asiatico che considerava la sovranità come una forma assoluta, sacra e insindacabile, di proprietà personale su genti, terre e cose.
Lo zar apparteneva a quella tipica classe di sovrani divini, che solo l’Asia ha prodotto, come il Figlio del Cielo, il Dalai Lama o Buddha vivente, il Padiscià vicario di Allah, e lo stesso Mikado. Lo scopo vero del governo russo è sempre l’esercizio del potere, cioè la conquista, la forza, l’espansione del dominio e della fede, la sottomissione dei miscredenti. Il popolo non era che una energia motrice di lavoro e di guerra. È rimasto al comando un sapore di fanatismo religioso, una indipendenza da ogni idea di equità umana.
Il popolo russo ha delle qualità contraddittorie: è passivo ed emotivo, impulsivo e pigro, mistico e brutale, paziente e insofferente. Ma la docilità, la rassegnazione, la capacità di soffrire in silenzio e di dimenticare, costituiscono le tipiche virtù di queste masse sentimentali e crudele che la musica seduce, la parola esalta, e che nessuna durezza stupisce. Sopra tutto esse sono fataliste, persuase della ineluttabilità degli eventi, pronte ad accettare ogni destino, perché è destino.
Il popolo russo è rimasto semplice, elementare, con idee primitive e rudimentali di sottomissione o di rivolta. In fondo esso obbedisce sempre, e quando si solleva è perché il comando del disordine risulta più forte. Le sue sommosse furono sempre anarchiche e massacratrici. Come il sollevamento di quel Bolotnikov, schiavo liberato, che tre secoli fa mise a ferro ed a fuoco mezza Russia guidando bande di contadini sterminatori al grido di “Niente più autorità, ammazzate, prendete tutto, la legge è finita”. Il secondo “falso Dimitri” non sollevò forse le campagne capitanando diecimila cosacchi fin sotto Mosca con il programma assolutamente bolscevico di “far sparire tutte le ricchezze private per costruire un bene comune”? Così pure fu una terrifica convulsione che oggi si direbbe comunista che insanguinò il sud dell’impero dal Volga agli Urali, sotto Caterina, con la famosa rivolta di Pugacev il cosacco. Il popolo russo si è trovato in ogni tempo pronto al sollevamento, come una materia infiammabile è pronta a divampare alla minima scintilla. Fa pensare a quegli esplosivi moderni con i quali si può fare del concime, e che producono fertilità o sterminio.
Nelle sue rivolte vi è stato sempre un fondo messianico, un atteggiamento di rivendicazione universale, un miscuglio di vendetta, di ferocia, di sogno, di utopia. Era metallo che per la minima fessura colava, brillava, illuminava, bruciava, poi ricadeva oscuro, freddo, pesante e immobile per altri cento anni.
Si comprende come su queste masse malleabili e ignare, rigorosamente escluse da contatti con altri paesi, persuase da una propaganda forsennata che tutti popoli del mondo rovinati, affamati e perseguitati dal capitalismo, le ammirano e le invidiano, si comprende, diciamo, come l’esperienza sovietica possa svolgere tranquillamente la sequela capricciosa dei suoi giganteschi tentativi, i quali finiranno probabilmente per adattarsi a poco a poco alle leggi eterne delle necessità umane e del consorzio civile.
L’innocente operaio comunista russo è così sicuro della rivoluzione mondiale vicina e inevitabile, che considera con profonda pietà lo straniero, destinato a trovarsi in mezzo ad orrori assai più grandi e terribili di quanti la Russia conosca.
E si ritiene straordinariamente privilegiato.
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3. UNA DISPERATA FATICA.
Strade nuove ma che sembrano non finite, mal tenute, rovinate dal traffico pesante degli autocarri, ci portano da una officina all’altra nei sobborghi di Mosca, attraverso ad un disordine di cantiere sparpagliato sulla landa nevosa. Tutto ha un’apparenza caotica e provvisoria.
La visita dello straniero agli stabilimenti industriali dell’U.R.S.S. segue un rito protocollare. Lo straniero confida all’Agenzia turistica (“Inturist”) la lista delle cose che vuole vedere; l’agenzia la comunica alla “Ghepeù”; questa consulta gli archivi per conoscere i precedenti politici del petente e decide che cosa permettere e che cosa vietare (a noi, per esempio, non è stato concesso di visitare la fabbrica di cuscinetti a sfere impiantata da italiani). Una guida di fiducia è messa infine a fianco del visitatore, ed il viaggio alle “Piatiletke” si svolge regolarmente a prezzi di tariffa.
La guida è generalmente una donna. Nel personale dell’ “Inturist” non si vedono che donne, signore distinte di una certa età, vestite modestamente di indumenti antiquati e rammendati, le quali parlano varie lingue con sobrietà cortese. La guida è invece giovane e le parla con esuberanza e continuità assidua ed impersonale, come un fonografo.
Vaste come quartieri, le folle delle nove costruzioni industriali si ergono oscure, rozze, coperte per lo più di legname, con un’apparenza sommaria e povera d’improvvisazione, veri baraccamenti per macchine, irte di ciminiere e prese in ragnatele di cavi elettrici, sui quali il gelo ha appeso le sue biancherie scintillanti.
Immobili sentinelle dal grigio berretto sovietico, che finisce a tubo come un imbuto rovesciato, i grossi guanti di lana a calzetta, il calcio del fucile sotto l’ascella, sbarrano gli ingressi. Fuori i documenti. Pare di varcare una frontiera.
Si entra in piccoli uffici da corpo di guardia per misteriosi controlli, bolli, firme. Vi è ovunque una vigilanza di guerra. Tutto è in regola: si schiude una barriera d travi e passiamo.
La visita comincia normalmente con una conferenza del direttore, in qualche angolo deserto del reparto amministrativo. È una cateratta di cifre. Il direttore vi fornisce dati sulla produzione presente e futura, sull’aumento del numero di operai impiegati, e se vi interessate al rendimento umano non esita talvolta a dichiararvi che l’efficienza operaia tedesca è già sorpassata e l’efficienza americana lo sarà fra un anno. Poiché gli ingegneri tedeschi e americani impiegati dall’U.R.S.S. ritengono invece ci vogliono diversi russi per fare il lavoro di un operaio occidentale, voi avete la più ampia scelta di opinioni in proposito.
Dopo la preparazione direttoriale siete accompagnato alle corsie del lavoro dove vedete quello che avete già visto in altri paesi, nei quali queste macchine e queste produzioni hanno da epoche diritto di cittadinanza. Ma l’interesse di queste visite non è nei processi di fabbricazione, che sono i nostri. È nell’enormità dello sforzo di acclimatazione tecnica.
Quello che la Russia sovietica offre di impressionante è la vastità e la contemporaneità delle innovazioni. È l’urgenza e la misura dell’opera. Non è una coltivazione di industrie ma un trapiantamento di massa. Allo stesso modo Pietro il Grande trasportò sulla terra russa tutte le industrie mature dell’Europa, in un colpo solo.
Qualunque sia il costo, il rendimento, lo scopo e il destino di questa impetuosa trasformazione, essa offre la visione di una fatica gigantesca, penosa e disperata, piena di una truce magnificenza.
È la terza incarnazione del bolscevismo. Esso cominciò col distruggere tutte le discipline produttive e col disorganizzare le industrie perseguendo una utopia egualitaria: fu il comunismo dei primi quattro anni. La società venne spianata al livello unico di un’agonia comune. Ma, nel pieno della catastrofe il bolscevismo disorientato si ritrasse, ripristinò la libertà dei mercati, riammise l’industria privata, lasciò alle forze naturali la cura di alleviare le miseria del Paese: fu la “Nep”, la “Nuova politica economica”, una rientrata della proprietà. Si ricorse al capitalismo come ad una medicina. Ma nella normalità e nella prosperità che rinascevano stavano affondando e scomparendo gli avanzi della concezione comunista. Ed ecco l’ultima fase: l’appello alla possanza della tecnica, della scienza, del progresso stranieri, la mobilitazione delle risorse, delle competenze, delle fatiche, sotto la sferza di rigori spietati e di fanatismi frenetici, per una ricostruzione parossistica che abbandona tutte le leggi dell’economia.
La produzione industriale è quadruplicata nel confronto dell’anteguerra, ma ad un costo fantastico. Il prezzo di ogni macchina che esce dalle officine dell’U.R.S.S. è incalcolabile. Si lavora per tutto in perdita. Non vi è azienda russa che potrebbe vivere altrove. All’estero queste imprese condurrebbero i proprietari alla miseria. In Russia pure: il proprietario è il popolo. Ed è la resistenza del popolo alla miseria che costituisce una base di stabilità a questo straordinario regime.
Ma lo spettacolo di tali attività di moltitudini in miseria, docili, mute enigmatiche, minacciate da sanzioni crudeli e incitate dai clamori di una propaganda parossistica e infiammatoria ha una imponenza tragica, un’angosciosa ed inumana grandezza. Esse corrono verso supreme speranze. Dove arriveranno? Non importa. La visione del futuro è il loro nuovo paradiso.
È un’operosità intensa e senza gaiezza. È una massa di entusiasmi, di rassegnazioni, di ferocie, di atonie, saldati tutti ad una stessa catena, in un fragore di macchine, in un odore acre di folla che non si lava, fra voci stentoree di altoparlanti, sbandieramenti di drappi rossi, ritratti di bulgravi bolscevichi, urli di “brigate d’assalto”, nubi di fumo, baionette. E sullo sfondo grigio di questa Russia coatta, battaglioni di soldati in tonache fulve e berretti a cappuccio, simili a frati guerrieri, passano lanciando aspri canti, come al tempo degli zar, con l’impassibilità dell’abitudine.
In questo mondo spietato ed elettrificato noi ritroviamo l’antico “mir” collettivista, l’antico “artel” cooperativista, l’antico “soviet” legislatore, e ritroviamo le idee di Boris Godunov sul servaggio, le idee di Ivan il Terribile sul monopolio governativo del commercio estero. Ma i bolscevichi proclamano che tutto questo è Karl Marx. La cosa che più sorprende è appunto il contrasto fra quello che avviene e quello che si vocifera, si predica e si stampa. Non c’è in Russia nulla di più inesplicabile della spiegazione.
Il Paese è praticamente nelle mani degli “spetz” (gli specialisti) chiamati a dar vita alle loro più ardue concezioni, ma la retorica bolscevica è rimasta alla prefazione comunistica. Si sente un bisogno di fissità dogmatiche in questo evolversi vertiginoso di cose in cui si formano nuove classi, nuove gerarchie, nuovi privilegi, nuove oppressioni.
Vi è una rigidità biblica nelle dottrine del regime sovietico, qualche cosa di religioso. Esso si rifugia dietro le formule di una teologia rivoluzionaria, con un linguaggio da predicatori e da missionari rossi, pieno di massime dogmatiche e oscure, di anatemi e di credi. È un regime di testi sacri, di sacri concili, con i suoi santi, le sue reliquie, i suoi riti (ed è una eccellente inquisizione per lo sterminio degli eretici).
Il bigottismo comunista somiglia molto al bigottismo ortodosso della vecchia Russia, assetato di proselitismo e persuaso di esser chiamato a far la luce sul resto detestabile del mondo. Tutto questo è per il nostro spirito latino opprimente come un incubo, ma non ci nascondiamo la sua forza.
Il linguaggio marxista è una specie di “volapuk” internazionale con il quale il bolscevismo parla all’immaginazione di masse di ogni razza, ignare e lontane. La ossessionante propaganda russa proietta su tutti gli orizzonti una visione apocalittica di costruzioni trionfali erette da un “proletariato dittatore”.
Il lavoro dei centomila schiavi che costruirono la grande Piramide di Cheope aveva il carattere di questo “comunismo”. Il quale non sarebbe possibile senza la onnipresenza di una polizia formidabile, la “Ghepeù”, perfezionamento della “Ceka” che era un perfezionamento della “Okrana” zarista: una polizia di fronte alla quale la terribile “Terza sezione” di Nicola I appare mite come un comitato di beneficenza.
Ognuno si sente sorvegliato. Non si sa dove l’occhio o l’orecchio della “Ghepeù” possano celarsi. L’amico, il fratello, il figlio, sono stati in molti casi degli informatori austeri che hanno mandato parenti e conoscenti al muro di esecuzione. La deportazione infierisce. Persone sospette di comunicazioni con l’estero o colpevoli di aver avuto contatti non autorizzati con qualche ambasciata, sono sparite. Innumerevoli sono i casi di scomparsa detta “amministrativa”. Capitano anche a dei bolscevichi, quando le loro idee sembrano meno aderenti alle direttive del momento. Questa persecuzione si chiama qui “lotta di classe”, anche quando colpisce i compagni di Lenin.
Essa sale, e non si sta più tranquilli negli alti ranghi del sovietismo. La paura è divenuta la forza dominante. È lei che governo ed è lei che obbedisce. È difficile dire dove finisca. Essa tiene tutti, dalla cima al fondo delle gerarchie, e da lei viene la ferocia delle precauzioni governative al minimo incidente che possa attribuirsi ad una opposizione. Le regioni meno ospitali della Siberia sono frequentate da rivoluzionari in disgrazia. Uno zar non vi avrebbe mandato persone diverse.
Ma la Siberia è una punizione generosa. La privazione del pane è la pena più comune per la piccola gente. Il diritto di mangiare non è qui implicito e naturale. C’è molta gente che senza essere deliberatamente condannata a morire non è ufficialmente autorizzata a vivere.
La sospensione del pane sopprime indiscipline e indisciplinati. Si effettua su individui, con la privazione del lavoro e quindi del mezzo per mangiare, e si esercita su masse, non lasciando o non distribuendo loro il grano per sfamarsi. È semplice e automatica come la chiusura di un rubinetto. Le regioni agricole che si mostrano ribelli all’istituzione delle “collettivazioni” sono semplicemente degranizzate. Nel 1933, alcuni milioni di contadini sono stati lasciati morire di fame in Ucraina, perché non volevano rinunciare alla proprietà dei loro campi. Aggiungiamo, per debito di equità, che è stato anche fucilato a Mosca il Commissario del Popolo per l’Agricoltura, insieme a due suoi sottosegretari, sotto l’accusa di debolezza verso gli ucraini. Le “collettivazioni” galoppano.
Adesso si muore di fame nel Turkestan, dove, secondo persone degne di fiducia che hanno visto, è comune trovare cadaveri per le strade, e si digiuna in varie altre zone. Si tratta di “incidenti” che non arrivano alla stampa. O vi provocano un accenno laconico ed intimidante, come quando si è pubblicata mesi or sono una lista di popolose “stanitze” cosacche del Caucaso settentrionale con l’annunzio che avevano “cessato di esistere”.
Con questi mezzi tutto va come un orologio.
Sul lavoro, disubbidire, o mancare, o sbagliare, sono colpe che possono assumere l’aspetto di attentati ai “Piani”. È sorta la figura del “crimine economico”, qualche cosa paragonabile al tradimento contro lo Stato in tempo di guerra. Avviene spesso che, per aver prodotto pezzi difettosi, degli operai siano stati arrestati e deferiti ai Tribunali speciali, che sono delle vere corti marziali sul fronte del lavoro.
Non è un padrone comodo il comunismo. Paga compensi di miseria, impone il cottimo, dimezza lo stipendio all’operaio la cui macchina si ferma, purché egli non vi abbia colpa, perché se vi ha colpa l’operaio è sospeso o processato. La “Ghepeù” ha arrestato tanta gente che si è messa ad intraprendere lavoro colossali con le moltitudini dei suoi prigionieri politici.
Sono eserciti di prigionieri che scavano canali, erigono impianti, costruiscono ferrovie, tagliano foreste, operano fabbriche, faticano fra i ghiacci della Carelia e sulle steppe infuocate dell’Asia Centrale, erigono fortificazioni sull’Amur, fanno strade nel Turkestan; e tutti quegli ingegneri di cui leggiamo ogni tanto la condanna per “sabotaggio” o per “connivenza col nemico” formano gli stati maggiori – detenuti – nella sterminata e cruenta battaglia del lavoro forzato.
Sarebbe un grave errore non riconoscere l’esistenza ed il valore di un sincero entusiasmo fra i più giovani, fra coloro che non conoscono e non concepiscono altra vita, e che l’educazione bolscevica ha forgiato nella persuasione di essere i liberi ed i privilegiati del mondo, circondati dalla miseria e dall’oppressione del “capitalismo” che li invidia e medita la loro aggressione. La contentabilità degli uomini dipende dall’idea che essi si sono fatti del “meglio”. Tutto è relativo. Da secoli, tribù di popoli arretrati mancano di quello che a noi pare necessario, e sono perfettamente soddisfatte e felici. La nostra miseria è la loro normalità.
Lievi fili di una fede mistica e fanatica si intrecciano al greve e opaco tessuto di inerzia, di fatalismo, di passività e di paura che costituisce la massa del popolo russo, e lo tengono insieme in una compattezza di disciplina, di rassegnazione e di speranza.
Queste sono le energie positive sotto al cui martellamento di forgia un destino indefinibile. Nessuno può dire se è il sogno di Lenin od il sogno di Pietro il Grande che trascina la Russia verso un avvenire misterioso.
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PARTI PRECEDENTI:
> URSS, L’IMPERO DEL LAVORO FORZATO. Viaggio nella Russia sovietica (Parte 1)