5. Il riposo di Vladimir Ilic Ulianov (Lenin)
Uno scalpiccio di folla silenziosa nella penombra fra lucentezze vellutate di marmi neri. Operai, soldati, scolaresche con le loro insegnanti, scendono nella sontuosa catacomba. È una sommessa cateratta di passi giù per scalinate solenni invase da tenui luci riflesse. L’architetto che ha immaginato questa tomba per Lenin possiede il genio delle imponenze scenografiche.
Ha saputo esasperare l’attesa. La cripta funebre è assai più profonda, nella terra, di quanto ci si aspetta. La discesa pare un viaggio in un labirinto di pietra. Si ha il tempo di dimenticare per la strada la luce del giorno e le cose che vi si sono lasciate.
La muraglia murata del Cremlino, adesso barbaramente imbiancate (il bolscevismo ha i gusti di Nicola I); e in essa la Porta Spaskiè, davanti alla quale qualche umile funzionario sovietico si tocca con gesto distratto la visiera ripetendo furtivamente il saluto rituale all’immagine del Salvatore affrescata sull’arco; la porta Nikolski su cui un primitivo San Nicola, sbiadito e spettrale, pare benedica andandosene; e, in fondo alla chilometrica spianata, la sorprendente fioritura di cupole bizzarre della cattedrale si San Basilio, che sembra emersa da qualche leggenda orientale a ricordare che Ivan il Terribile era devoto: tutte queste cose si ergono intorno al monumento di Lenin. Hanno visto le battaglie, le stragi e le apoteosi della Piazza Rossa. E tutte queste cose, le ultime guardate, si hanno negli occhi e nel pensiero varcando la porta di bronzo del sepolcro bolscevico. Ma scendendo, gradino per gradino, ci si distacca incredibilmente da loro.
Si affonda in un incubo nero di marmi e di silenzio. Tutto si cancella in una tenebrosa eguaglianza. Nulla più esiste che una lugubre marcia di moltitudine per nudità grandiose e gelide dalle quali non si torna indietro. La storia, l’arte, la Russia, sono cose spente, visioni dileguate nel buio. Sale dal fondo della tragica cavità una indefinibile marea di annichilimento. Gradino per gradino ci si immerge nella gran tomba in cui è sepolto con un uomo di mondo.
Da fuori, quel piccolo mausoleo di granito rossigno, severo parallelepipedo che ha l’aria di una ridotta, non lascia indovinare le vastità abissali a cui dà accesso. Il monumento a Lenin non si slancia in alto: si sprofonda. È un sotterraneo. Hanno dedicato alla memoria di Vladimir Ilic Ulianov una camera da mina basilicale scavata sotto al Cremlino. Al posto dell’esplosivo, Lenin.
Il cadavere è immerso nella luce. L’urna di cristallo in cui sta disteso è come una enorme lanterna posata al centro della cattedrale comunista. Intorno tutto è incerto e oscuro. Sulle pareti nere grandi intarsi di marmi rari disegnano teorie di bandiere rosse, confuse come chiazze sanguigne sospese tutto in giro nelle tenebre. Ferma in una rigidità ipnotica, nel fossato di granito ai piedi della salma, una sentinella pare la statua del soldato in trincea. La folla sfila. Lo scalpiccio dei passi si fa leggero come davanti ad un sonno.
Tutti i giorni per due ore Lenin passa questa rivista sotterranea di fedeli. Alle diciotto il carillon che lo zar Michele, primo dei Romanov, fece mettere sulla Torre del Salvatore, suona elettricamente l’Internazionale. La rivista cessa. La catacomba si svuota, le luci si spengono, la porta di bronzo si chiude. Il morto ha concluso il suo lavoro quotidiano e rimane solo nel buio.
Nel lugubre fasto della sua reggia sotterranea Lenin fa pensare ad un potentato asiatico che dorma qualche magico sonno. Ha una sorprendente apparenza di calma viva, a causa del sapiente colore dato al suo volto imbalsamato. Il carattere mongolico della sua faccia si accentua nella magrezza. Innumerevoli sagome di antenati tartari pare che affiorino su quella testa in una sintesi macabra. La sua larga bocca socchiusa conserva un indefinibile espressione, come si fosse fermata su asprezze rimaste inespresse. Un’impronta di aristocrazia è nella sua bruttezza asiatica.
Ulianov veniva da quelle regioni del Volga che furono sede dell’Orda d’Oro, gremite di discendenti dei dominatori mongoli emersi sette secoli fa dalla vallata di Karakorum, e dove oscuri fermenti combattività e di miseria hanno prodotto le più grandi esplosioni di rivolta della storia russa. Il sogno del più sottomesso degli schiavi è di essere padrone per un giorno. Come padrone massacra. Le insurrezioni del Volga sono state uragani di sangue. Il bolscevismo riconosce in esse i propri precedenti lontani. Quelle rivolte hanno infatti il posto di prefazione nelle Esposizioni della rivoluzione.
Il carattere emotivo e pigro, impulsivo e indolente, credulo, passivo e passionale del popolo russo, somiglia a quel miscuglio di energie dormienti e di sostanze neutre e dolciastre che compongono la dinamite: qualche cosa di inerte e di innocuo che aspetta soltanto un urto per diventare inferno. Le molle del furore russo sono semplici e poche: toccandole si produce il “pogrom”. Il “pogrom” è alla base di tutto in Russia. Successioni al trono, mutamenti di regime, di dinastie, di egemonie, hanno sempre cominciato con un “pogrom”: stragi di predecessori, stermini di rivali, vendette, persecuzioni, terrori. E poi, eventualmente, un grande governo. E un grande silenzio.
“Se qualche Pugacev di università si mettesse alla testa di un partito” – scriveva De Maistre quasi un secolo fa alludendo alla spaventosa rivolta scatenata nel Volga dall’atamanno cosacco Pugacev e che fece tremare per un anno il trono della grande Caterina – “e il popolo cominciasse una rivoluzione all’europea, io non ho espressione per dire quello che si potrebbe temere”. Ebbene, il Pugacev di università è venuto. Eccolo là, dentro quell’urna di splendore. La testa lievemente reclinata, le mani stanche posate sulle cosce, vestito di nero per la prima volta, egli è nobilmente composto nell’atteggiamento di profondo riposo che segue le immense fatiche.
Lenin aveva l’istinto della dominazione, come un Khan, e una fede ardente nella sua idea. Nascosto, fuggiasco, lontano, aspettava. Menava la vita di un pretendente povero. La sua volontà, lucida, feroce, paziente, maniaca, era sempre tesa verso la conquista del potere. Adattava il suo fervente marxismo alle circostanze come si adatta l’alzo del fucile per colpire meglio.
Amava un’umanità teorica. Negli uomini vedeva, come Neciaiev, delle pedine che possono essere sacrificate. Arrivato al governo confessava un giorno a Gorki che la musica gli dava talvolta aspirazioni caritatevoli. “Ma – aggiungeva – se carezzi le teste degli uomini rischi che ti mordano le dita. Bisogna picchiare su quelle teste…”.
Qualche cosa di simile significava Ivan il Terribile dicendo all’interprete che gli traduceva le allusioni di un ambasciatore alle sue crudeltà: “Dì a questo cretino di straniero che lui non conosce la Russia ed io sì, e che se io non impicco i miei sudditi, loro impiccano me”.
Lenin non si imbarazzava di idee di giustizia, che è un pregiudizio occidentale come il sentimento della cavalleria. Trovava qualsiasi inganno giustificato, quando riesce. Sapeva fulminare, dissimulare, fuggire. “Se non sai adattarti – diceva – se non sai strisciare per terra, col ventre nel fango, non sei un rivoluzionario ma un vanaglorioso”. Aveva impeti demoniaci e conciliazioni prudenti, a seconda che dovesse sopraffare o illudere il nemico, stabilendo quel principio di slealtà utilitaria che è alla base della politica bolscevica.
Tutto questo è Asia.
Era in Lenin la diplomazia di un Li-Hung-Ciang e l’inesorabilità di un Genghis Khan. Era nato per governare un paese come la Russia. Quel piccolo uomo trasandato, tozzo, con i calzoni troppo lunghi, l’occhio crudele e convincente, i capelli arruffati sule tempie, la parola incisiva e incendiaria, era fatto della stoffa dei grandi zar.
Lenin, dopo l’infelice tentativo insurrezionale del 1905 a Mosca, non ha mai più pensato di suscitare personalmente una rivoluzione. Quello era affare da girondini. Egli si preparava a portar via la rivoluzione dalle mani di chi l’avesse fatta. Essa doveva venire, era fatale, e maturava nelle classi dirigenti. Lenin l’aspettava in agguato. Era in agguato dei rivoluzionari, non dello zar. I suoi attacchi, i suoi furori, i suoi anatemi, erano contro gli affini, i vicini, i correligionari, contro coloro che egli avrebbe dovuto sconfiggere quando lo zarismo fosse stato da loro sconfitto. L’ostilità di un erede non va al moribondo ma agli altri eredi. Lenin odiava più attivamente un menscevico che un granduca. Egli ha combattuto soltanto contro dei rivoluzionari.
Per quasi vent’anni ha condotto una guerra di mina cerebrale da squallide camere in affitto svizzere, tedesche, inglesi, solo con la moglie Nadeshda, che in certi momenti pareva tutto il suo partito, scrivendo davanti agli avanzi di un’aringa ed alle tazze sporche. Era un anacoreta ragionante pieno di furori messianici e di raziocini matematici. La sua idea di governo era assolutista. “Ma la tua organizzazione rivoluzionaria non è che autocrazia!”, gli disse Trotzki a Londra trentadue anni fa. “E perché no?”, rispose Lenin. “Date le circostanze non può essere diversamente”. Aveva ragione, ma pensava come un conquistatore.
“L’importante è che facciamo la conquista del potere”, egli scriveva nel 1905. “La conquista del potere è per me più importante del socialismo. Perché conquistato il potere eserciteremo un grande influsso in Europa da suscitarvi un grande incendio rivoluzionario…”. Quest’ansia di internazionalismo viene probabilmente dall’essere la religione dei rivoluzionari russi fatta di dottrine straniere, e dell’avere essi formata la loro coscienza all’estero, fra un condanna, un esilio, un’evasione, a contatto e nella solidarietà di rivoluzionari di tutto il mondo. Ma forse risponde anche ad uno spirito ben russo di redenzionismo.
Cioè di imperialismo.
I russi sono espansionisti di istinto, da gente che calcola a migliaia di miglia, che trova l’Europa più vicina e più piccola di tante provincie della loro stessa terra. La Russia si è dibattuta nell’ossessionante aspirazione di grandezze che venivano dall’eredità dei Khan, dal ricordo di Bisanzio, cioè di Roma, e, in ultimo, dalla lezione di Napoleone. Ha sempre creduto ad una sua missione di dominio sulla terra.
Cento anni fa, visitando San Pietro a Roma, il granduca Michele esclamò: “È bello, ma quanto sarà più bello quando noi russi officeremo qui dentro”. Era il tempo in cui la Russia interveniva negli affari di tutta Europa a sostegno del principio autocratico, e Tiucev, interprete del pensiero di Nicola I, scriveva: “Non vi sono in Europa che due potenze reali, la Rivoluzione e la Russia. Dalla lotta fra di loro due dipende l’avvenire politico e religioso dell’umanità”. Non c’è niente di cambiato salvo la posizione dei termini. La Rivoluzione è adesso dall’altra parte, ma i bolscevichi sentono come Nicola I.
Cosa strana, Lenin, questo sollevatore di cicloni umani, non aveva mai parlato a più di cento persone riunite prima di piombare da un treno tedesco nella Russia in fiamme. E così quasi tutti gli uomini del suo stato maggiore.
Arrivavano dai quattro angoli dell’Europa, dove molti di loro, come Lenin, vivevano alle spese del partito la vita grama ma quieta di piccoli pensionati. Trotzki veniva dall’America dove aveva persino fatto la comparsa cinematografica. Erano profughi, cospiratori, fuggiaschi anche quando non fuggivano, scrittori clandestini, dottrinari esercitati alle discussioni litigiose di piccoli congressi segreti. Ma non avevano mai avuto contatti diretti continuati con le masse, non avevano mai vissuto con loro, non le avevano mai condotte, e di esse conoscevano gli odi assai più dei bisogni. Sapevano cosa distruggere ma non cosa costruire. Per la costruzione confidavano in Karl Marx.
A Pietrogrado, appena assunto il potere, Lenin promise la realizzazione della felicità comunista in pochi mesi. Da Mosca dichiarò, successivamente, che due o tre anni sarebbero stati ancora necessari. Un anno prima di morire parlava di “alcuni decenni”. La grande vera tragedia di Lenin è qui. Comincia dopo il suo trionfo.
L’ignoranza bolscevica spiega gli eventi di diciassette anni. Il credo socialista, nato in Germania dai fenomeni di una intensa industrializzazione, non avevano alcun significato in un immenso paese agricolo con centosessanta milioni di ettari coltivabili e un centinaio di milioni di contadini che reclamavano la terra. La popolazione operaia, nel cui nome si governava l’impero, non era che il quattro per cento del popolo russo. Sorgevano problemi urgenti e giganteschi che significavano fame, anarchia, massacro, e che sfuggivano a tutte le cognizioni ed alle soluzioni teoriche del bolscevismo, le quali apparivano così perfette esaminate ad un tavolo di piccolo caffè di Ginevra o di Soho Square.
“Non crediate che manchi il potere politico – scriveva coraggiosamente Lenin nel 1920 – Ne abbiamo anche più del necessario. Quello che manca è il sapere…. La nostra élite comunista non è sufficientemente colta…. I comunisti sono gocce d’acqua nel mare del popolo…. Solo se conosceremo con chiarezza i desideri del popolo potremo governarlo”.
Vi è qualche cosa di profondamente umano e patetico nelle parole del grande distruggitore arrivato alle angosce dell’uomo di governo.
“Siamo dinanzi a difficoltà gravi – egli diceva ad un suo amico. – Noi siamo dei vecchi congiurati e non abbiamo pratica di amministrare e di dirigere uno Stato. Ma impareremo”.
“Impareremo!”, era come porsi di imparare la medicina dopo aver aperto il ventre al paziente. Fortunatamente per i bolscevichi il paziente russo resiste a tutte le operazioni.
La guerra fra la città e la campagna, fra chi ha la forza e chi ha il pane, fra il comunismo e i contadini una guerra che costituisce la storia di tutto il regime sovietico, era inevitabile. Due correnti sorsero nel governo bolscevico, una intransigente e una temporeggiatrice, che è stata la più forte finché ha vissuto Lenin. Egli ha condotto la lotta contro ai “mugik” con una duttilità da grande statista. Sapeva colpire e cedere. Era volta a volta terribile e conciliante.
Diceva ai contadini: “Possiamo andare d’accordo. Voi potete rovesciarci ma non potete governare. Chi verrebbe dopo di noi? Se tornassero i “bianchi” vi riprenderebbero tutto”. Aveva l’aria di proteggere la piccola proprietà campestre mentre cercava come distruggerla. I “mugik” spodestati lo ricordano adesso come un patrono. Ebbero da lui le terre nel 1917 e la “Nep” nel 1921. È morto in pace con loro.
Un altro uomo del tipo asiatico ha il comando. Nato nel Caucaso, dove così profondi sono i ricordi, le tracce e le influenze della dominazione della Persia, Stalin, che si è chiamato David, Koba, Nisceradse, Ciscikov, Ivanovic, ed il cui nome vero è Jughasvili, evaso due volte dalla Siberia, al contrario di Lenin e di tutti gli altri fondatori del bolscevismo non ha mai preso residenza in Europa.
Ha la faccia bruna, dura, impassibile e fine di un persiano. Veste sempre una sua casacca grigia perché detesta le apparenze occidentali. Il suo odio per l’Europa arriva alla cravatta.
Freddo, calmo, sottile, tenace, inesorabile, egli dirige il Partito Comunista, che dirige il Governo sovietico, che dirige l’URSS. Tutti i fili convergono nelle sue mani, nell’ombra di una Segreteria. Gli uomini che erano fra lui e il potere hanno lasciato la scena, rigettati nella massa, o fuggiti all’estero, o deportati in Siberia, o semplicemente morti. Uno ad uno, gli avversari del formidabile caucasico sono stati indotti a commettere errori che li hanno perduti, o sono stati costretti e confessare errori liquidatori.
È Stalin che ha gettato l’immenso peso della economia russa sulla industrializzazione ad oltranza, la quale assume le forme della proletarizzazione totale del popolo russo. La grande offensiva comunista contro la campagna trasforma i contadini in “operai agricoli”.
Adunati, irreggimentati, inquadrati, i contadini sono messi in rango sui solchi. La caserma è il vero ideale sociale del bolscevismo.
Ma quando la immane fatica di questa smisurata industrializzazione, che ora si svolge in perdita, riuscisse eventualmente a creare sopravanzi di ricchezza, allora ingigantirebbero certe sperequazioni di benessere fra uno strato e l’altro della società, le quali si sono determinate e si precisano violente. Perché l’eguaglianza comunista esiste e permane soltanto nella profonda miseria, quando tutti hanno gli stessi stracci, la stessa fame, la stessa pena. L’indigenza generale è la sola, vera e grande livellatrice sociale. La distribuzione di una prosperità non farebbe che moltiplicare, con la diversità dei compensi e dei regimi di vita, le distanze che l’industrializzazione ha creato fra due grandi gruppi di classi sociali russe: le classi di chi comanda e le classi di chi obbedisce.
E questa Russia di privilegi, di sperequazioni e di ingiustizie che oscuramente nasce, non somiglierà molto al paradiso bolscevico la cui immagine si è formata ed è rimasta, forse, come una fotografia non sviluppata, entro quel cranio di avorio che splende nel sottosuolo della Piazza Rossa.
* * *
6. La mistica del lavoro forzato
Nelle immense officine, ogni tanto si vede una bandierina rossa attaccata a qualche macchina. Vuol dire che l’uomo addetto a quella macchina è un “udarnik”.
Gli “udarnik” sono i componenti delle cosiddette “brigate d’assalto” del lavoro: i trascinatori, gli energetici e gli energumeni. Ogni opificio ha la sua brigata. L’ “udarnik” è il prodotto più puro dell’educazione comunista, il privilegiato dell’eguaglianza, l’aristocratico della collettività. A lui si aprono la scuola professionali e, gratuitamente, le porte dei teatri.
Davanti alla macchina decorata dalla fiammetta vermiglia egli lavora, fumando la sigaretta, con in testa quel berrettone da ciclista diventato emblematico dopo che lo adottò Lenin. L’udarnik è sempre molto giovane. Chi ricorda o conosce l’esistenza di altre condizioni di vita sembra meno soggetto ad entusiasmi forsennati per l’esistenza nell’URSS. L’occhio vivace e intelligente, l’aria bellicosa e spavalda, l’udarnik ha soprattutto un’espressione decisamente priva di amenità.
Non si sa perché, ma è un fatto che il bolscevismo mantiene i suoi fedeli in un pessimo umore permanente e contagioso. Nella visione della felicità comunista ci deve essere qualche cosa di incompatibile con la gaiezza. Tutta questa gente ha l’aria tragica. Il popolo russo, non è mai stato particolarmente allegro, ma aveva esplosioni festose ed ilarità infantili. Adesso non più. C’è una tristezza senza soluzioni di continuità su tutto il territorio sovietico. Non vi abbiamo ancora visto una persone ridere. È anche vero che non vi abbiamo neppure trovato alcuna ragione per ridere.
L’istituzione degli “udarniki” è di una importanza capitale nella organizzazione di quella gigantesca e perfetta propaganda operaia per il lavoro sulla quale si appoggia l’industrializzazione sovietica, e che spinge le masse ad uno sforzo strenuo ed incessante. L’ “udarnik” è un po’ il suo cane da pastore la cui sola presenza fa trotterellare anche le pecore più ritardatarie.
L’inefficienza operaia si presentava come il più grave ostacolo alla realizzazione dei “piani” vertiginosi. I russi sono operai discreti, forse, ma certamente estatici. Non hanno mai considerato il lavoro come una cosa urgente, essenziale e improrogabile. Ci vogliono vari russi per fare il lavoro di un europeo. Bisogna dunque creare nelle masse uno stato di esaltazione produttiva, senza altro compenso che la speranza.
Il sentimento proletario è stato così abilmente forgiato nell’U.R.S.S. da poterlo dirigere a fascio, come il raggio di un proiettore, su qualsiasi obiettivo. Il russo è rimasto un mistico impulsivo. Una volta cancellate dall’anima dei giovani la fede cristiana, l’influenza della famiglia, la tradizione, e persino la poesia dell’amore, come si cancellano delle cose scritte sopra una lavagna, si è creato un vuoto avido di devozione e di passione, e tutto quello che vi si è messo ha assunto profondità sacre, valori dogmatici, ardori di fanatismo. Il comunismo è diventata una religione bizzarra, feroce, esclusiva ed intransigente, al di fuori della quale tutto è eresia e dannazione. E in materia di religione i russi non scherzano, loro che due secoli fa misero a ferro e fuoco mezzo paese per decidere se la benedizione sia valida impartita con due dita o con tre.
I due più grandi movimenti della esaltazione umana sono stati messi sapientemente in opera: la fede e la guerra. L’industrializzazione dell’URSS è presentata come una battaglia per la salvezza e la supremazia della Russia, che nemici implacabili circondano e minacciano. L’odio e il patriottismo sono in fondo all’entusiasmo bolscevico, benché abbiano preso i nomi di “fraternità” e di “Internazionale”.
“Diventeremo il Paese dell’industria – ha scritto Stalin – ed i signori capitalisti, che vantano la loro civiltà, tenteranno di raggiungerci”.
Sono le stesse cose che, con altre parole, Pietro il Grande gridò ai suoi boiardi brindando alla presa di Riga: “Io sento che la scienza – egli disse – abbandonerà le sue dimore di Inghilterra, di Francia e di Germania e per alcuni secoli prenderà stanza da noi”. Ma la scienza rimase nelle sue vecchie dimore.
C’è sempre l’idea del predominio. Sullo stemma sovietico la Terra intera con i suoi continenti ed i suoi oceani è raffigurata sotto la falce ed al martello, come una cuscino che porti i nuovi emblemi di una sovranità mondiale.
Un ansito di conquista è soffiato sulle folle lavoratrici perché si sentano in combattimento. Le varie “piatiletke” assumono aspetti di assalti successivi. È con il linguaggio dei bollettini di guerra che si annunziano le mete raggiunte dall’avanzata industriale. I ritratti degli operai più alacri sono esposti al pubblico: citazioni all’ordine del giorno. Le notizie dal fronte interessano tutti, e, come sempre in tempo di guerra, tutti ne discutono e si sentono strateghi.
Si capisce che, se qualche cosa va male, la gente indignata attribuisca il guaio a tradimenti internazionali, e la “Ghepeù” trovi opportuno presentare, con pezze di appoggio, dei capri espiatori. Nella rottura di un dinamo, o nell’insufficienza di un impianto, o nella improduttività di una azienda, c’è la mano dell’Europa. Misfatti del capitalismo.
Il proletariato russo immagina le altre nazioni contorte dagli spasimi dell’invidia e della paura, intente nell’ombra ai più neri complotti contro al bolscevismo possente e trionfante.
Bisogna che l’operaio sovietico senta così, perché la sua ossessione è una forza costruttiva. Se egli si considerasse in pace col mondo allargherebbe i tempi. In questa atmosfera drammatica, nella oppressione di una propaganda magistrale e spudorata che non lascia penetrare niente di estraneo ai suoi fini, tra tanto luridume di vesti e severità di visi macilenti, in questo mondo cupo, tetro, saturo di fanatismi, di paure, di manie, di sporcizia, di disperazioni e di dissimulazioni, vi è qualche cosa di terribilmente grandioso e angoscioso, allucinante e imponente come un mondo medioevale elettrificato e motorizzato, folle di terrori, di sogni, di illusioni e di errori che aspetti il millennio.
Quanto è profonda la crosta di incandescenza comunista su questa grande massa torpe ed enigmatica? Nulla pareva in Russia più profondo e indistruttibile della devozione ortodossa e del timore di Dio, che apparentemente si sono spenti senza eccessive esitazioni al soffio della rivoluzione, come candele accese di un santuario invaso dall’uragano. E duravano da dieci secoli.
L’entusiasmo bolscevico è nei più giovani sincero, vivo, dimostrativo, evidente. Nei meno giovani ha delle apparenze assai più sedate. La grande maggioranza del popolo è disciplinata, docile, attiva, ma profondamente inespressiva. Fa pensare ad una truppa schierata, pronta ed impassibile, della quale sia difficile dire quanto ami il suo colonnello.
Molto del fragore comunistico sotto al quale le masse sono tenute è il prodotto di una esagerazione voluta, calcolata per spronare moltitudini dall’indole normalmente placida, dal carattere freddo, dalla mentalità lenta, venute dalla campagna e propense ad un calmo disinteresse. L’eccitazione bolscevica è la “banderilla de fuego” inferta nella pelle di questo toro mansueto, che noi vediamo lanciare scintille balzando feroce e muggente nell’arena, ma che senza i razzi cercherebbe forse la stalla.
E vi è anche in questa frenesia, una certa dose di ostentazione, di posa, e di prudenza. L’instancabilità è di moda adesso in Russia, come gli stracci. Ragazze del popolo vanno in giro in tuta, sporche di fango fino agli occhi, un fazzoletto rosso intorno alla testa, l’aria terribilmente lavoratrice. I “volontari del lavoro” gremiscono, nei giorni del loro riposo dalla loro opera abituale, gli sterri dei cantieri della ferrovia metropolitana in costruzione, formicai umani su cumuli di sabbia; ma i “volontari” gettano di tanto in tanto una piccola palata un poco più in là, come per un rito, e aspettano il momento di andarsene dopo questo compunto gesto di adesione. Il giorno dopo la stampa li chiama titani.
Ma qualunque sia l’estensione del parossismo religioso e bellico da cui scaturisce la paradossale “mistica del lavoro forzato”, esso non può essere perpetuo. L’esasperazione, come la febbre, non è una condizione permanente. La guerra eterna è inconcepibile. Non mancano vaghi sintomi di stanchezza, che si manifestano talvolta in storielle satiriche circolanti segretamente e sussurrate spesso, con facce impenetrabili da giocatori di “poker”, da bolscevichi che nell’intimità lasciano il fuoco sacro in anticamera insieme alla pelliccia:
“Sapete, non ci sarà un Terzo Piano Quinquennale”.
“E perché?”.
“Perché il codice sovietico non ammette condanne superiori ai dieci anni. Dopo i dieci anni è la morte”.
Una parte imprecisabile dello slancio comunistico del proletariato russo somiglia al movimento di quelle immense masse d’alberi tagliati, per farne carta, che le fiumane della Carelia trascinano: una gesticolazione che è inerzia e un impeto che è abbandono. Ma una cosa è certa, ed è che una parte del popolo russo uscirà profondamente modificata, non nell’indole ma nella mentalità e nelle abitudini, dall’attuale stadio di enfasi e di schiavitù. La macchina è entrata profondamente nella sua vita, alterandone i ritmi, gli aspetti, le possibilità. Con tutti i suoi errori, i suoi sperperi, le sue follie e le sue crudeltà, l’industrializzazione ad oltranza è una enorme iniezione di acciaio nel gran corpo silvano dello sterminato impero.
Ma la parte del popolo russo così influenzata è quella cittadina, l’operaia, l’agglomerata, quella che si vede e si avvicina visitando l’URSS.
Sarebbe un grave errore generalizzare.
Gli “udarniki” sono operai esemplari – dicono i bolscevichi – scelti per la loro efficienza e la loro diligenza. Le maestranze sono invece di opinione che essi siano scelti per ragioni politiche, visto che debbono essere figli di proletari, atei, e riscuotere la fiducia del partito comunista. Sono loro che, quando viene l’ordine di fare una dimostrazione, prendono le bandiere rosse ed emergono dall’officina. Squadre di “udarniki” armati furono spedite a “liquidare” i “kulak” nel momento in cui i soldati esitarono a sparare. L’ “udarnik” mantiene alta la temperatura rivoluzionaria dell’officina. È una scintilla della “banderilla de fuego”.
Strana vita è quella dell’opificio sovietico, un miscuglio di laboratorio, di caserma, di scuola, di comizio. Da ogni parte si leggono massime, consigli, regole, generalmente scritti in grandi caratteri bianchi su strisce di stoffa rossa tese ovunque sulle pareti od attraverso le gallerie. “Tovarici!” (Compagni) gridano dei manifesti con lettere alte un metro. L’esistenza del lavoratore trascorre in una ridda di frasi che lo circonda turbinosamente come la galoppata delle pellirosse intorno al prigioniero. Nemmeno se è analfabeta sfugge, per via della radio, e se nella casa gremita non c’è spazio per vivere, c’è tuttavia un altoparlante gratuito, ammaccato ma instancabile e collettivo. È straordinario lo sviluppo che può prendere la radio nella propaganda a pressione in un popolo largamente analfabeta.
Negli atri, per le scale, al refettorio – dove i superiori mangiano in un reparto separato – per tutto è la galoppata rossa, la fiumana delle scritte che insegnano, ammaestrano, ordinano, incitano, condannano, proclamano, informano, ingiungono, esaltano. Il giornale murale edito dal Comitato di fabbrica, per fortuna in un solo esemplare, annunzia i nomi dei solerti e degli infingardi della quindicina (con fotografie) e critica gli uffici tecnici (con caricature). Fasci di bandiere rosse coperte di scritture circondano i ritratti di Marx, di Lenin e di Stalin negli angoli delle icone, dove una volta erano le immagini dei santi. Parole, parole, una nevicata incessante di parole cade sula Russia malinconica.
Ed è strano come queste immense officine appena nate abbiano già l’aria stanca, logora, trascurata, sudicia, delle cose trascurate e decrepite. Tutto vi pare di seconda mano. Si è costruito con tanta fretta, con materiali così poveri, e con metodi talmente sommari, che tutte le superfici a contatto d’uso si deteriorano, si screpolano, si fendono. Si è sacrificato ogni cosa all’essenziale. È giusto. Quello che non è indispensabile può essere benissimo sgangherato. Sembra la massima del regime sovietico. Ma la rovina più grande è portata dalla ignoranza e dalla indolente trasandatezza di maestranze miserabili e ineducate.
Fuori dalle gallerie delle macchine, scalini che si sgretolano, poggiamano di legno neri, unti di sporcizia, intoccabili, corridoi patinati di grasso all’altezza delle persone, pavimenti primitivi costellati di sputi, stipiti sconnessi, una trasandatezza, un logoramento, una puzza, un’incuria che sorprendono. La degradazione e l’avvilimento degli edifici, anche nuovissimi, offrono forse l’aspetto più immediato e desolante della indigenza russa.
Ecco, è l’ora della sosta meridiana. I macchinari si fermano, il frastuono si quieta. Un appello si leva: “Tovarici!”. Sono sorti qua e là degli oratori. In piedi dietro a delle cattedre, fra le macchine, dei capi-reparto tengono alle maestranze delle conferenze.
Docili come scolari, gli operai si aggruppano intorno alla cattedra e stanno immobili fissando il maestro con un’aria di diligente e profondo disinteresse. È difficile capire se ascoltino. Il loro sguardo è vuoto. Le donne, tipi di giovani contadine delle provincie meridionali, tozze, piccole, dal viso tondo e acceso, gli zigomi prominenti, il naso a pallottola, gli occhi asiatici, la blusa e i calzoni maschili, la testa avvolta nel fazzoletto rosso, si tengono alla periferia della classe, a coppie, con le braccia nude gettate sulle spalle l’una dell’altra, fianco contro fianco, e sono francamente distratte.
Gli oratori parlano della razionalizzazione e di altri argomenti tecnici atti ad indurre gli operai ad una spontanea moltiplicazione degli sforzi.
Sorprende la statura di questi gruppi. La corporatura russa era una volta famosa per il suo eccesso. Ma pare che il moscovita abbia perduto l’abitudine di essere un gigante biondo. Si è accorciato di un palmo. Le nuove generazioni appaiono generalmente mingherline e con una singolare maggioranza di bruni. E con il gigante è quasi scomparso un altro tipo che era comunissimo in Russia, paese della longevità: l’uomo anziano.
L’individuo che abbia fiorito nell’ante-guerra è rarissimo. Dove sono andati a finire i canuti ed i grigi? Quelli che non erano proletari non hanno potuto avere la tessera del pane e sono morti di fame, altri sono stati massacrati, il resto è scappato all’estero. Ma qualcuno è rimasto, sfuggito alla morte, inebetito, vivendo di segrete elemosine.
Ce n’è capitato uno l’altra sera di questi superstiti della fame, uno spettro tremolante che ad un angolo della Arbat Uliza, riconoscendoci per stranieri dalla sontuosità del nostro abbigliamento, ci ha chiesto sottovoce se eravamo francesi.
La notizia che eravamo italiani è sembrato deluderlo amaramente. Scuotendo la testa coperta da un enorme e consunto colbacco di pelo, senza aggiungere parola si è allontanato nel buio.
* * *
PARTI PRECEDENTI:
URSS, L’IMPERO DEL LAVORO FORZATO. Viaggio nella Russia sovietica (Parte 3)
URSS, L’IMPERO DEL LAVORO FORZATO. Viaggio nella Russia sovietica (Parte 2)
URSS, L’IMPERO DEL LAVORO FORZATO. Viaggio nella Russia sovietica (Parte 1)